[ssf] 2 mattoni

Delete this message

Reply to this message
Author: Patrizio Beraldo
Date:  
Subject: [ssf] 2 mattoni
li ho letti con soddisfazione, credo che possano essere utili a crescere
insieme.

(con i mattoni si costruiscono le case, possono non essere solo oggetti
pesanti ed inutili)

per chi volesse continuare, buona lettura, a tutt* un abbraccio ed
arrivederci presto.

        Patrizio.


**************

Date: Mon, 16 Dec 2002 23:10:28 +0100
Subject: [fori-sociali] Fw: [RK] riflessioni sul movimento 1
Reply-To: fori-sociali@???

Condivido del tutto questa analisi, io ho avuto la stessa impressione con il
RSF (una situazione che però non e' ancora del tutto degenerata grazie a mio
parere alla presenza di pochi esperti di pratica politica).
Molti che si parlano addosso le mezz'ore per dire nulla o quasi e diventano
aggressivi quando si chiede di rispettare i tempi (ho sentito che questa è
la regola con gli scazzi di partito), altri che litigano per dire le stesse
cose senza comprendersi; tanti che si mettono in lista per ripetere mille
volte le stesse cose (che gran cosa Firenze); carenze di metodo, analisi,
teoria, logica, immaginazione, ma tanta voglia di esprimersi (o imporsi?)
comunque.
Vogliamo parlare di metodo (del consenso), regole e pratiche di autogoverno
dei SF o va bene così?
ciao
----- Original Message -----
From: franco
To: rekombinant@???
Sent: Monday, December 16, 2002 10:50 AM
Subject: [RK] riflessioni sul movimento 1

Nel congedarmi da questa mailing-list vorrei, se mi è concesso, fare alcune
riflessioni riguardanti il movimento.
Non sono una persona dotata di grossi strumenti teorici, eppure alcune cose
mi appaiono chiare, tanto da indurmi a credere che alle volte le cose ovvie
vengano oscurate proprio dalla loro stessa ovvietà.
Quattro sono i punti su cui vorrei argomentare:
1) l'organizzazione interna del movimento e la metodologia del suo agire
politico;
2) la questione dei media;
3) la questione dei diritti;
4) i rapporti con la politica istituzionale.
1. Ho fatto parte di un Forum Sociale per un certo periodo di tempo, almeno
fino a quando il forum non é imploso a causa, secondo me, di fattori del
tutto interni alle dinamiche del forum stesso.
Prima ancora ho partecipato a Genova e prima di Genova ad altri appuntamenti
importanti.
I forum si sono costituiti sull'onda dell'entusiasmo genovano , una novità
politica senza paragoni , dove almeno a parole si sanciva l'importanza dell'
inclusione e della valorizzazione di tutte le differenze interne al
movimento con la sola discriminante della guerra e del neoliberismo.
Le prime riunioni del forum erano affollatissime, venivano persino preti e
suore della parrocchia. Le discussioni erano a volte scadenti a volte di
buon profilo,tutto sommato si andava avanti. Abbiamo fatto buone cose ,
diverse iniziative sull'immigrazione, sulla guerra , sulla Tobin Tax. Ad un
certo punto però il clima interno ha iniziato a deteriorarsi: sono emerse
aspirazioni egemoniche di singoli e gruppi, con mozioni portate avanti a
forza di maggioranza, conflitti fra i singoli membri di natura quasi
paranoicale, recriminazioni e accuse che lasciavano allibiti la maggior
parte dei presenti. Infine le riunioni sono diventate teatro di lotte
intestine.
Io e Stefano, il compagno che ha scritto l'articolo riguardante il
"consensus model" per l'ultimo numero di Posse, abbiamo cercato di
introdurre proprio questa nuova metodologia di lavoro all'interno del forum,
in prima istanza per porre rimedio al caos tipico delle assemblee e dei
gruppi di lavoro italiani, ma anche nel tentativo di affermare un metodo
che, lungi dall'essere un mero espediente tecnico, si ripropone di affermare
criteri genuinamente democratici, escludendo il ricorso alla maggioranza e
privilegiando appunto la ricerca del consenso.
Le forme dell'agire come gli eventi simbolici producono identificazioni a
cui fanno seguito comportamenti corrispondenti. Si é "indotti" a comportarsi
democraticamente perché ci si rappresenta e si struttura il proprio agire
secondo criteri democratici.
Per un po' le cose migliorarono, ma gradualmente riemersero le vecchie
deformazioni , le vocazioni strategiche tardo leniniste, il desiderio di
egemonia, gli interventi che si susseguivano sovrapponendosi l'un l'altro
senza alcun criterio.
Già in passato io ed altri compagni di ritorno dal secondo incontro contro
il neoliberismo tenutosi in Spagna, dopo aver lavorato con alcuni compagni
americani, ne ricavammo la sensazione che il loro metodo(il consensus model)
fosse quello giusto, un metodo che riusciva a coniugare l'efficacia del
lavoro politico con la democrazia e tentammo senza successo di insinuare
questa metodologia in Italia.
Temo che la nostra cultura così marcatamente continentale ci porterà ad
irridere questi sistemi ancora per un bel po' .
Credo che gran parte della crisi del nostro forum e di altri forum sia
dovuta proprio ad un graduale venir meno delle motivazioni dei partecipanti,
conseguenti alla frustrazione, figlia della condanna alla marginalità nella
partecipazione alla discussione, all'assenza di gratificazioni nel lavoro
politico, che rende difficile continuare a lavorare quanto più ci si al
lontana da eventi grandiosi come Genova e Firenze, ad inconfessabili mire
egemoniche ed inoltre alla scarsa attenzione alle dinamiche gruppali e
relazionali. Non dico certo che dovremmo chiamare uno psicoterapeuta a
condurre i nostri gruppi di lavoro , ma di sicuro la consapevolezza che
talvolta i conflitti sono generati non già dalla inconciliabilità delle
posizioni,
bensì da dinamiche inerenti alla comunicazione stessa, dalla "punteggiatura"
del discorso per così dire e dalla necessità di affermare se stessi
piuttosto che i propri contenuti, gioverebbe in casi specifici alla ricerca
di soluzioni adeguate.
Tutti questi elementi derivano in larga misura, a mio avviso, dall'assenza
di una metodologia, in grado di mettere dei paletti laddove si cerchi la
prevaricazione ed allo stesso tempo incoraggi ciascuno ad esprimere
liberamente il proprio punto di vista.
Non sto affermando che tutti i forum siano in crisi e che il "consensus
model" sia la panacea per tutti i mali, ma credo che nella migliore delle
ipotesi enormi energie vengano dissipate proprio in virtù di uno
spontaneismo a volte osannato, e per la mancanza di metodo. La continuità
dell'intervento é legata perlopiù alla passione ed al sacrificio personale.
Tutto ciò secondo me porterà nel tempo ad un esaurimento del nostro agire,
il quale rientrerà nella solita circolarità degli eventi storici con il loro
bravo ciclo che inizia e finisce.
Mi si dirà che tutto ha un fine e bisogna ammettere che i cicli storici che
determinano l'inizio e la fine dei movimenti sono materia complessa che va
al di là di semplici questioni di metodologia, eppure sono convinto che se
vogliamo porre le basi per un radicamento non già del movimento in se, bensì
di un processo di trasformazione della società nel suo insieme con tutte le
insidie e le contraddizioni che questo comporta, dobbiamo fare un salto
pragmatico che ci consenta partendo dalle piccole cose di arrivare ai grandi
eventi. Il metodo appunto che non si esaurisce con il consensus model, ma
che da questo prende le mosse.
Dobbiamo cercare di capire se il movimento, nella sua "indisciplinatezza",
debba svolgere una funzione di pura testimonianza lasciando le sue tracce
nei linguaggi e nei comportamenti, non intaccando seriamente al contempo
l'insieme dei rapporti politici economici e sociali, oppure se debba porsi
il compito di "produrre società", proprio come capacità di mutamento
radicale dei rapporti produttivi esistenti e prefigurazione di un altro
mondo possibile.
A questo proposito vorrei fare accenno ad un'altra questione:
cosa ci impedisce mi chiedo di prendere in mano l'intero ciclo produttivo
delle merci? Abbiamo la forza, le conoscenze e le energie. Perché attraverso
il lavoro cooperativo non possiamo pensare di iniziare a rifondare dal basso
i rapporti di produzione. Credo sia possibile, mediando un modello di
piccola impresa cooperativa, produrre gran parte della domanda dei beni che
proviene da un contesto "sviluppato".
Al riguardo é bene fare piazza pulita dell'idea di produzione alternativa,
la diversità secondo me sta nella qualità del prodotto e nella destinazione
dei ricavati, e non nella tipologia del prodotto, non possiamo pensare di
orientare la grossa domanda se vogliamo influenzare realmente i processi
produttivi su larga scala, possiamo forse farlo per prodotti di nicchia,
così come é bene fare piazza pulita dell'idea vetero-marxista di
espropriazione dei mezzi di produzione in una logica di dittatura proletaria
al grido di "one solution revolution".
Pensate ad esempio alle "fuel cell" riguardanti la produzioni di fonti di
energia all'idrogeno. E' possibile come dice Rifkin che in Italia o altrove
si creino i presupposti per socializzare e implementare questo tipo di
produzione?
Io credo di si, ma non sono un cervellone e non ho nessuna autorità per cui
alle volte mi viene il dubbio che l'ovvio sia una specie di delirio.





***************************
il seguente è xtratto dalla mailing list [baseverde] in occasione di un
incontro, (non so con quali caratteristiche), tra rappresentanti dei Verdi.
[Pat]
***************************

Messaggio: 2
[.....]
Da: verdi <verdi@???>
Oggetto: Lettera .....

Ho trovato molto interessante la lettura di questo scritto che vi giro
non si sa mai che ci aiuti a riflettere. Biagio

______________________
Carissimi, sono doppiamente interessato al vostro incontro, per
l'amicizia antica con molti di voi, e per le questioni su cui vi
interrogate. Non c'è argomento sul quale possa dirvi cose utili: ero già
abbastanza ignorante prima, figuratevi ora, dopo tanto disimparare e
tanto poco vedere. Vi proporrò una questione attorno a cui i miei
pensieri girano sempre più spesso, che è quella che un leopardista
potrebbe chiamare della confederazione degli umani. Cioè della misura da
cercare fra conflitti necessari -sociali, personali- e solidarietà
possibile, sulla scala della vita privata di ciascuno come del destino
del pianeta. In realtà ci penso da un quarto di secolo, da quando
dovetti rimettere in discussione un'idea del mondo ispirata alla
devozione alla lotta, e all'antagonismo fra una classe di umani e
un'altra. Quella riflessione per me non fu un aggiustamento, ma una
conversione radicale. Anche per questo, e non solo per un'inclinazione
personale e per il ruolo che avevo avuto, il mio impegno militante si
volse bruscamente in un lungo ritiro solitario, a differenza di quanto
avvenne per molti altri, e per esempio -per fare il nome di uno che mi
fu sempre interlocutore fraterno- Alexander Langer. C'era dunque da
ripensare a un modo di vita dominato dalla lotta, la lotta fra umani e
la lotta contro la natura. E dominato anche da un punto di vista
dualistico. Una revisione meno brusca inclinava ad attenuare
l'assolutismo della dicotomia di classe, affiancandole altri dualismi
con pari dignità: specialmente quello così rivelatore e travolgente
imposto dal femminismo. Era il tempo delle transizioni, più o meno
superficiali, più o meno riuscite, alla militanza rossoverde
(rivoluzionaria: la rivoluzione era una delle parole più difficili da
metter via), all'ecopacifismo eccetera. Il primato restituito al
rapporto con la natura ebbe per tanti il senso di una rivelazione. Con
eccezioni di associazioni e persone sensibili a temi naturalistici o
ecologisti, o addirittura specialisti di quei temi, come per il
nucleare, la politica rivoluzionaria aveva trattato la difesa della
natura come un cavallo di battaglia del pessimismo reazionario o della
conservazione interclassista o del lusso dei ricchi. Il trapasso, spesso
una vera inversione, dall'adesione alla violenza sociale e politica come
una necessità inevitabile imposta dalla violenza nemica, quando non come
la levatrice di un'umanità riscattata, fu sospinto e arricchito da due
acquisti fondamentali: la crisi del modello maschile e virilista, e la
scoperta della fragilità della natura e del risarcimento che imponeva.
Conversione culturale segnata in ambedue i casi da un pentimento, un
passo da segnare, una digressione, a volte una ritirata aperta, e la
necessità della riparazione. Una parola detestata del lessico politico,
"conservazione", diventava una parola nobile di quella nuova
sensibilità: la conservazione della natura. La filosofia che opponeva
alla riduzione dell'universo al valore di scambio il valore d'uso, si
accorgeva che alle cose può e deve esser riconosciuto un valore "per
sè", che è un modo per definire, fuori dalle religioni positive, ciò che
è "sacro". Un volo di falchi pellegrini non più dichiarato res nullius.
Una riserva naturale non solo sottratta alla devastazione speculativa,
ma addirittura vietata alla frequentazione umana: idea impensabile per
tutte le tradizioni culturali fondate sull'asservimento del mondo
all'uomo.
Penso che quella laica conversione -ne parlo perchè fu un'esperienza
cruciale per me e molti di voi, ma anche perchè fu un passaggio fondante
per la corrente civile e politica di cui siete eredi- sia stata in
genere, fra la fine degli anni '70 e gli '80, abbastanza flebile e di
maniera, e che se ne sia sentita poi la frettolosità: per esempio in
quel chiamarsi di colpo pacifisti di gruppi e persone che restavano
decisamente agguerrite. E anche dopo, il ripensamento critico è stato
tutt'altro che esauriente: ma succede così, e la rimozione la
distrazione e il passaggio a un altro ordine del giorno sono il nostro
modo di andare avanti. Una delle aspettative della conversione di modi
di pensiero e di vita ispirata all'ecologismo riguardava il modo
dell'impegno politico comune. Del modello di rivalità virile e di
milizia agonista faceva parte, e che parte!, la lotta strenua fra le
fazioni e le persone, mascherata da feticci ideologici morali e
disciplinari, guerre per paragrafi di scritture sacre o per ambizioni e
gelosie personali. L'ecologismo -ce ne sono tanti, certo, di ecologisti-
tuttavia l'ecologismo implica una peculiare solidarietà e fraternità, se
non altro l'alleanza solidale che deve stabilirsi fra i passeggeri di un
naufragio, di un aereo dirottato, se non si ceda al cannibalismo. Non
appena si allarghi l'inquadratura dal primo piano delle lotte umane allo
sfondo della consumazione della terra, le lotte umane, le guerre di
Troia, potranno conservare magari una loro nobiltà, ma mostrandosi un
po' patetiche e rimpicciolite, come guizzi e assalti reciproci di pesci
già pescati sul ponte della paranza. I verdi se ne accorgevano,
scoprivano la parentela profonda fra la caccia e la guerra (e la
violenza politica), provavano a rinnovare i modi della politica
perseguita insieme. Come sempre, finivano per confidare troppo negli
statuti e nelle regole, che sono importanti ma non quanto il cambiamento
degli animi: stabilivano rotazioni di eletti, rigidi meccanismi
assembleari, nomenclature corrette, portavo al posto di segretari e
così via. Questo scrupolo interno si accompagnava a un'aspirazione
esterna a sciogliere le cristallizzazioni di ideologie e schieramenti
ereditati, a rivolgersi a tutti come se tutti potessero esser toccati da
un destino comune al di là delle stesse madornali e infami differenze di
potenza e di ricchezza: con una combinazione di competenza e profetiamo,
un annuncio documentato della minaccia alla vita, alla sua qualità e
alla sua stessa durata. E' notevole che la distinzione pigramente
consacrata fra sinistra e destra, che oggi è così ravvivata, e perfino
infiammata, fu più seriamente rimessa sotto esame in quel periodo. I
verdi apparvero come i pretendenti autorizzati a quel benvenuto
rimescolamento di carte, e soprattutto a una proposta civile e politica
disinteressata alle rendite di piccola posizione, ai linguaggi di
piccola minoranza, alle carriere di piccola rendita.
Molto sbrigativamente -mi scuserete anzi la prolissità usata finora: i
verdi hanno mancato in ambedue le promesse. Non hanno parlato una lingua
di maggioranza alla maggioranza delle persone. Non hanno trovato nei
loro rapporti reciproci una solidarietà e una lealtà migliori di quelle
della politica tradizionale. Non ho bisogno di argomentare questa doppia
sconsolata constatazione, tanto meno con voi, che ne siete uno dei
depositi: e poiché ne siete un deposito intelligente e onesto, siete la
prova dell'impossibilità di spiegare le delusioni con le meschinità o le
sciocchezze umane.
Ora, ancora più frettolosamente, dirò che al di là della sua peculiarità
verde (i verdi in Europa avrebbero potuto davvero incarnare la
conversione e la riconversione della sinistra, innamorata della libertà
e fedele alla giustizia sociale) la questione riguarda l'intera
politica. Gran parte della disaffezione (grazioso eufemismo) alla
politica professata si nutre oggi di una sensazione di rissosità,
gelosia, piccineria, rivalità, lasciate a nudo dall'eclisse delle
ideologie ferree, che erano le foglie di fico del cannibalismo di
potenti e gregari. E però, come coi verdi, la constatazione di questa
rissosità non spiega abbastanza e tanto meno cura la malattia: come la
constatazione che molte convivenze coniugali sono messe a dura prova dal
tempo. La verità è che i partiti, comunque si chiamino, sono
sopravvissuti in una forma largamente conservatrice a un mutamento
radicale nella classifica dei conflitti e delle minacce alla vita dei
popoli. I partiti derivano la propria ragione dall'essere parte, e anche
la propria nobiltà: e tutte le volte che è stato proposto loro
l'argomento dell'interesse comune -dall'apologo di Menenio Grippa in
poi- le parti deboli e ribelli hanno obiettato. L'obiezione è che siamo
tutti sulla stessa barca, ma alcuni sono incatenati e frustati a remare.
Anche il Titanici, come l'intera storia umana, è diviso in classi, la
prima la seconda e anche la terza. La questione della politica che si
ispiri, come voi dite, alla centralità della coscienza ecologista sta
qui, in una inversione della gerarchia dei fini, delle lotte dei
linguaggi e dei comportamenti. La lotta di classe, nei più avvertiti,
non ignorava neanche due secoli fa l'esistenza di una storia naturale
sul cui fondo si giocava la partita delle lotte fra umani: ma
riconosceva come incommensurabili i tempi della storia umana rispetto a
quelli lentissimi della storia naturale, così lenti da non incidere
sulle guerre degli Stati e le guerre civili, se non nell'eruzione
improvvisa e castigatrice delle catastrofi. Nel giro di due o tre
secoli, un impercettibile battito nella storia geologica, il modo degli
umani di abitare la terra è diventato capace di incidere lui sulla
storia naturale, fino al corto circuito fra i tempi del proprio teatrino
di zuffe e duelli e lotte generose e botte da orbi, e i tempi delle
mutazioni dei climi e del livello delle acque e della composizione
dell'aria. Salvaguardia delle risorse e degli equilibri naturali
minacciati dalla pacifica voracità della popolazione umana, e riparo
alla minaccia militare di armi capaci di pregiudicare la vita del
pianeta, mettono senz'altro al primo posto di un'agenda politica non
cieca una conversione ecologica dei consumi e degli stili di vita umani
e un impegno per la pace nutrita dalla giustizia. Chi non vede come
nessuno fra i partiti protagonisti del potere politico rispetti davvero
una simile priorità di fini? (Le sono molto più vicini, a prescindere
dagli orientamenti seguiti, molti fra i movimenti new globale o i
radicali transnazionali). Chi non vede, di più, che in nessun paese
democratico si può oggi prevalere nelle elezioni proponendo quelle
priorità? La cattiva conservazione, anche intellettuale e psicologica,
che tiene così drammaticamente gli Stati nazionali al di qua
dell'impegno internazionale necessario ad affrontare inquinamento e
guerre e tirannie, sequestra ancora pressoché per intero la contesa
politica nel vicolo cieco della normale amministrazione, ed esasperata.
Una politica lungimirante rischia però di diventare demoralizzata e
inerte o addirittura complice nei confronti dei poteri che, accecati
dalla propria stessa arroganza e ingordigia, e dalla spaventosa
abitudine, sfruttano e affamano e umiliano. Bisogna riformulare una
gerarchia di fini e di sforzi, proporzionare risorse, e anche modi di
pensare e di parlare e agire. E probabilmente, piuttosto che farsi
tentare dalla denuncia di inefficacia della democrazia parlamentare
sulla scala delle nazioni o dei raggruppamenti multinazionali,
immaginare un rapporto diverso fra sedi e strumenti della politica
tradizionale e di quella innovatrice. Ciò che, penso, non significherà
affatto una minor attenzione al ruolo delle istituzioni: al contrario.
Come vedete, torno sempre a quel Leopardi della Ginestra: "Tutti fra sé
confederati estima / gli uomini, e tutti abbraccia / con vero amor,
porgendo / valida e pronta ed aspettando aita / negli alterni perigei e
nelle angosce / della guerra comune". Non mi sfugge la genericità delle
mie osservazioni. Il fatto è che l'argomento imposto dallo stato ultimo
del mondo coincide con un argomento vecchio quanto il nostro mondo: per
esempio l'appello alla solidarietà, alla fraternità e perfino all'amore
universale che è del Cristianesimo -lasciate intanto le vicissitudini
storiche- e che il Papa ha appena ripetuto nella sua visita al
Parlamento, cioè nel luogo più pronto all'applauso e più alieno dal
consenso pratico. Anche qui: l'appello alla solidarietà ci è così
famigliare che non solo non immaginiamo nemmeno di dover provare a
seguirlo nella pratica, ma che per ripensarci, per riascoltarne le
parole come se avessero un significato e non fossero una litania sonora
e inavvertita, ci occorre una piccola rivoluzione intellettuale. Diamo
per scontato che quello sia un messaggio magnanimo e bellissimo, e diamo
altrettanto per scontato che non sia perseguibile -che non sia cosa di
questo mondo. L'eventualità che lo sia, e anzi che lo sia di nuovo e di
più nella condizione del nostro tempo, e insomma che non si tratti solo
di una predica -chi non riconosce la necessità di una predica ogni
tanto?- ma di una possibile buona idea, ci tocca difficilmente. (Senza
volere, ho usato le parole di quella risposta di Gandhi a un
intervistatore: "Mr.Gandhi, che cosa pensa dell'Occidente?" "Mi pare una
buona idea"). E' notevole anche che la grande istituzione che predica
l'amore universale (e anzi l'amore per i nemici) sia poi una monarchia
maschile, benché non ereditaria.
Devo concludere, questo che non sa essere uno svolgimento ma un indice
di questioni: per dire che non solo i modi e le parole della rivalità e
della rissosità politica costituita, ma l'intero arsenale di modi delle
nostre relazioni personali quotidiane è incomparabile con quella
gerarchia di fini riveduta che guarda alla conversione ecologista e alla
pace secondo giustizia. Vecchia questione anche lei: della coerenza. Se
invoco la salvezza del pianeta avvelenato e oscurato, devo prendere
qualche provvedimento rispetto alle mie tre automobili. Se auspico un
vasto concorso di buone volontà attorno ai diritti e alla pace, non
posso rincorrere i passanti abbaiando e ringhiando dentro e fuori del
mio piccolissimo partito.
So bene che l'aggressività e la razionalità non vanno facilmente
assieme. Il rispetto per il limite è, prima che una necessità materiale,
una conquista morale e psicologica. Oltretutto, una politica più mite e
però non meno rigorosa, più disinteressata e capace di simpatia, deve
fare i conti con la seccante questione dei posti cui le persone
aspirano, della soddisfazione che se ne aspettano alla propria vanità,
al proprio potere, alla propria ricchezza. Proliferazione di aspiranti
leader ed endemico caudillismo ne sono le manifestazioni contemporanee,
protezionismo corporativo e liberismo, va da sé, selvaggio.
Con questa ovvietà vi saluto affettuosamente,
Adriano Sofri.
____________


se siete arrivati fino in fondo e qualcosa non vi garba nel fatto che io
abbia inoltrato queste mail, propongo di non "disturbare" la mailing list e
di chiarirsi le cose direttamente;

a me piace particolarmente la birra alla spina (chiara, classica) ma sono
curioso e apertissimo a qualsiasi modalità e luogo di discussione chiunque
voglia proporre.

siate felici,

        Patrizio.