Se qualcuno ancora non l'ha letto provvedo ad inviare
l'Articolo della Oriana Fallaci:-
Dopo le cinque giornate di Firenze, la scrittrice
replica punto per punto a tutti coloro che l'hanno
attaccata
Signora Fallaci, devo fare una premessa: io sono
quello che giovedì 7 novembre, cioè il giorno in cui è
incominciato il Social Forum a Firenze, ha pubblicato
sul «Giornale della Toscana» un articolo di fondo
intitolato: «Il coraggio della Fallaci».
E sono quello che nell'edizione di domenica 10
novembre ha pubblicato, sempre in prima pagina e con
la mia firma, un articolo intitolato «La gratitudine
che dobbiamo alla Fallaci».
Ritengo infatti che con quell'estate trascorsa a
battersi come un leone per spiegare alla destra e alla
sinistra ma soprattutto alla sinistra l'errore del
Social Forum a Firenze, poi con quell'articolo
«Fiorentini, reagite con sdegno-Comunque vada, la
violenza morale rimane», lei abbia contribuito in
maniera determinante a salvare Firenze. A far sì che
non succedesse nulla.
E pazienza se per salvare Firenze lei ha salvato anche
chi non meritava davvero di essere salvato. Tutto ha
un prezzo, in questa vita...
Non è successo nulla perché è successo tutto. O
meglio, perché succedesse tutto. Ho scosso la testa
quando l'indomani ho visto l'esultanza dei giornali
che dicevano: «Firenze, festa della Pace».
(Un'esultanza che ricordava il trionfalismo dei
comunisti italiani al tempo di Molotov-Malenkov-Beria,
poi di Krusciov e di Breznev cioè al tempo in cui non
facevano che blaterare di pace ma più ne blateravano
meno ce n'era). Anziché una Festa della Pace, infatti,
sabato 9 novembre a Firenze s'è svolta una brillante
manovra politica. Un magistrale sgambetto, un geniale
«colpo-di-stato» che un settore della sinistra
massimalista ha compiuto contro i vertici della
sinistra istituzionale. Per l'esattezza, il settore
che è riuscito a controllare dominare narcotizzare i
gruppi facinorosi del caotico movimento detto
no-global. Al posto dei militari che nei normali colpi
di stato escono dalle caserme per occupare i palazzi
del Potere, i quarantaduemila partecipanti della Cgil.
E in particolare i millecinquecento incaricati del
servizio d'ordine, i cinquecento operai della Fiom, i
cinquecento militanti Ds, i ferrigni portuali di
Livorno. Non ha disubbidito nessuno, a Firenze.
Nemmeno il supposto capo dei disubbidienti, il Rambo
che aveva annunciato: «Non sarà una manifestazione
non-violenta». Nemmeno gli anarchici greci di cui
tutti avevano tanta paura. Nemmeno i duri con le tute
nere. Nemmeno i morbidi con le tute bianche che però a
Genova non erano stati tanto morbidi e s'eran messi
con le tute nere, avevano partecipato agli scontri con
la polizia. A proposito: ma chi glieli dà i soldi per
comprarsi quelle costosissime tute e la guerresca
attrezzatura che le accompagna? Chi glieli dà i soldi
per viaggiare sugli aerei intercontinentali e sui
treni di lusso e sulle automobili accessoriate? La San
Vincenzo de' Paoli? Non hanno disubbidito nemmeno i
Casseurs francesi, gli Attak olandesi. Anziché
rivoluzionari, sembravano goliardi in vacanza.
Suonavano l'orchestrina, facevano il girotondo,
cantavano «Bella ciao, Bella ciao». Manco fossero
diventati tutti boy scout. O frati francescani,
monache carmelitane. Ma insieme alle bandiere del
pacifismo, pacifismo-uguale-antiamericanismo, alzavano
giganteschi ritratti di Stalin. «CON STALIN PER
SEMPRE. Per un'Italia Unita, Rossa, Socialista».
Alzavano ritratti di Bin Laden, un Bin Laden che
sembrava un Che Guevara. Ritratti di Che Guevara, un
Che Guevara che sembrava Bin Laden. E tra le bandiere
del pacifismo-uguale-antiamericanismo, i cartelli che
insultavano me. «Le bombe intelligenti leggono Oriana
Fallaci». «Meglio un Pacciani in casa che una Fallaci
all'uscio». «Questa è la vera Firenze, non quella
della Fallaci». «Fuck you, Fallaci». «Vaffanculo
Fallaci».
Li ho visti anch'io. E ve n'eran di peggio.
Pazienza. Neanche uno però che in nome della parola
più sputtanata del mondo, la parola Pace, ricordasse i
tremilaottocento morti dell'11 settembre. Neanche uno
che in nome dei Diritti Umani maledicesse il
mussoliniano dittatore che si chiama Saddam Hussein, i
gas con cui ha sterminato a migliaia i contadini dei
villaggi iraniani. E con cui oggi stermina i contadini
dei propri villaggi. Neanche uno che rendesse omaggio
agli studenti cinesi ammazzati in piazza Tienanmen.
Neanche uno che celebrasse il piccolo eroe che con la
borsa della spesa in mano si piazza dinanzi ai carri
armati di Pechino. Neanche uno che piangesse sul
milione di cambogiani assassinati da Pol Pot. Neanche
uno che condannasse le stragi che i kamikaze
palestinesi hanno fatto e fanno nei supermarket e
nelle pizzerie di Tel Aviv o di Gerusalemme. Neanche
uno che s'indignasse per il testamento lasciato dal
kamikaze che diresse la strage di New York: «Ai miei
funerali non voglio esseri impuri cioè cani e donne.
In particolare quelli più impuri cioè le donne
incinte». Non ci pensavano neppure i dimostranti in
buona fede. Intendo quelli convinti che la guerra si
possa abolire, che la Ricetta per la Pace esista. E va
da sé che molti di questi eran lì solo per noia o
curiosità. (Perché siete qui? ha chiesto un
telecronista a tre giovanotti vestiti da coniglietto.
«Per divertirci» hanno risposto). Va da sé che il
trentasei per cento dei dimostranti ufficiali non
sapevan nemmeno che cosa significasse la parola
no-global. (La cifra del trentasei per cento è fornita
dal sondaggio compiuto alla Fortezza da Basso dagli
stessi organizzatori del Forum). Ma torniamo al
colpo-di-stato.
Un «colpo-di-stato», uno sgambetto, una manovra
politica, lei stava dicendo, che si è materializzato
non impiegando un esercito in uniforme ma quei
quarantaduemila che neutralizzavano i gruppi
facinorosi.
Guardi, quando rifletto su quel colpo-di-stato,
dinanzi ai miei occhi appare l'immagine d'un politico
freddo e intelligente che vagheggia un progetto molto
ambizioso: sbaragliare i rivali, prendere in pugno un
partito che era un partito con una fisionomia ben
precisa ma che di fisionomie ora ne ha centomila e non
sa più dove va. Come un Bonaparte deciso a passare il
Moncenisio, conquistare la Liguria e il Piemonte poi
il Lombardo-Veneto e le Romagne poi il resto, va
dunque in cerca di truppe. Di alleati, di sostenitori.
E per trovarne si rivolge all'unico elettorato di cui
si possa servire: quello di chi, avendo le idee
confuse o non avendone affatto, si nutre solo di
parole e di slogan. Al massimo, di utopie. È
l'elettorato offerto da una generazione che tutto
sommato non vale un granché. Ha avuto pessimi
genitori. Gente che ha saputo dargli solo il motorino
e il telefonino o il computer e l'automobile, le
vacanze alle Seychelles. Ha avuto pessimi maestri.
Gente che essendo uscita dalla cialtroneria
sessantottina non ha saputo insegnargli neanche a fare
una divisione e una moltiplicazione, a usare il
condizionale e il congiuntivo. Ha avuto pessimi
esempi. Gli esempi d'una società che parla sempre di
diritti e mai di doveri. E di conseguenza è una
generazione scoglionata, per lo più composta da figli
di papà cioè da borghesucci ben nutriti e molto
annoiati. Da falsi ribelli in cerca d'un nemico da
combattere e nel medesimo tempo di ciò senza cui gli
esseri umani non possono vivere: un sogno, uno scopo.
Così a un certo punto il sogno, lo scopo se lo sono
inventato, e lo hanno chiamato Pacifismo. Il nemico se
lo sono costruito, e lo hanno chiamato globalismo. Di
questi due concetti che non sono nemmeno concetti
hanno fatto un gran pasticcio battezzato movimento
no-global e con quello, guidati o maneggiati da adulti
privi di qualità sono andati all'attacco. Ogni volta
combinando un mucchio di guai. Seattle, Praga,
Göteborg, Genova. A Genova hanno anche lasciato un
morto di cui quegli adulti si cibano come avvoltoi, ed
ora vengono a Firenze, dove c'è una gran paura del
corteo che sfilerà sabato 9 novembre. Il politico
freddo e intelligente, si dice, non li può soffrire. I
figli di papà esulano dal suo ambiente: lui è abituato
a stare con gli operai. Però capisce che questa è
un'occasione d'oro. Capisce che per passare il
Moncenisio deve cavalcare la tigre di quel corteo,
impedire che a Firenze avvengano le solite tragedie.
Per impedirlo deve tenere a bada i facinorosi che
hanno combinato i guai di Seattle, di Praga, di
Göteborg, di Genova. E per tenerli a bada manda i suoi
quarantaduemila più duemilacinquecento fedeli. Tipi
che conoscono la ribellione e la disciplina, che non
sopportano mosche sul naso, e che non possono essere
trattati dai facinorosi come un piccolo carabiniere
terrorizzato o un povero poliziotto al quale il
questore ha tolto perfino la rivoltella.
Contemporaneamente parla coi possibili membri del
possibile elettorato. Li convince a non commettere una
volta tanto sciocchezze. Gli porge la mano, gli
promette nonsocché e forse gli dice: «Ragazzi,
pensateci bene. Urge una metamorfosi». Poi viene a
Firenze, si mette nel corteo che nel frattempo s'è
misteriosamente raddoppiato, anzi triplicato di folla
estranea ai no-global. Una folla soltanto curiosa.
Quindi innocente, innocua. Ci si mette e con gambe
salde, idee chiare, sfila tra le bandiere nere e
rosse, tra i Che Guevara che sembrano Bin Laden, i Bin
Laden che sembrano Che Guevara. E la manovra che
chiamo sgambetto anzi colpo-di-stato riesce. Gli
riesce. Parlo, naturalmente, di Cofferati.
Ipotesi affascinante, anche considerando il processo a
cui ora sono sottoposti i suoi rivali.
Ipotesi? Io dico realtà. Il guaio è che le metamorfosi
non avvengono nel giro di ventiquattr'ore. E una
rondine, cioè un corteo che per la prima volta non
brucia neanche un'automobile, per la prima volta non
sfascia neanche una vetrina, non fa primavera. Chi ha
un po' di cervello non può credere che all'improvviso
i no-global siano diventati tutti boy scout, frati
francescani, suore carmelitane. Aspetti il prossimo
raduno, ad esempio il G8 che terranno a Parigi, e
vedrà. Del resto ce l'hanno promesso. Rambo se n'è
andato a culo torto e dicendo: «Torneremo». Torneranno
a far che? A visitare gli Uffizi? A chiudersi in
ritiro spirituale nell'abbazia della Certosa? La
domanda mi rimbomba dentro gli orecchi, e mentre
rimbomba mi chiedo: se il colpo-di-stato si consolida,
dura, quanti ne gestirà l'aspirante Bonaparte? Alcuni
affermano che questi no-global sono davvero un
movimento di emancipazione. Ma l'emancipazione non ha
niente a che fare coi Casseurs, coi prepotenti che
rompono e spaccano come gli squadristi di ottant'anni
fa. Non ha niente a che fare con chi difende i regimi
teocratici, con chi ammette il burka o il chador.
Altri sostengono che i facinorosi sono una minoranza e
che prima o poi diventeranno come i loro padri o i
loro nonni sessantottini, cioè direttori delle banche
che ora vogliono assaltare. Altri ancora giurano che
son davvero bravi ragazzi, che spesso vogliono bene al
Papa, e che molti preti stanno con loro. Ma dagli ex
sessantottini e dai preti mi guardi Iddio, dal Papa mi
guardo io, e concludo: voglio proprio vedere come se
la caverà, con loro, il vincitore di sabato 9
novembre.
Ma nei contatti che ebbe durante l'estate per
scongiurare il Social Forum a Firenze non sospettò mai
che il Social Forum di Firenze potesse partorire un
simile intrigo?
Noddavvero. Io pensavo soltanto a salvare Firenze. Il
timore che i bravi-ragazzi combinassero a Firenze quel
che avevan combinato ovunque, che Firenze me la
sciupassero, me la oltraggiassero, era l'unica idea
che occupasse la mia mente. Non a caso, proprio nel
corso di quei contatti, incominciai a parlare di
violenza morale. «Comunque vada, sarebbe una violenza
morale» dicevo ricordando a tutti che Firenze è il
simbolo stesso della nostra cultura, della nostra
identità, della nostra civiltà. E a causa di questo,
solo di questo, quando seppi che la sgomentevole
coppia cioè il presidente della Regione e il sindaco
di Firenze aveva commesso l'insensatezza, uscii dal
mio esilio. A causa di questo in luglio lasciai New
York e venni in Italia. Per il mio lavoro non avrei
dovuto. Stavo traducendo La Rabbia e l'Orgoglio in
inglese, e non aveva alcun senso fare un simile lavoro
a Firenze anziché a New York. In più, quando lavoro ho
bisogno d'una assoluta concentrazione: non riesco a
far due cose nel medesimo tempo. Ma Firenze mi
permetteva d'affrontare «de visu» le persone alle
quali era necessario rivolgersi. Il primo che vidi fu
il prefetto Serra. E trovai un uomo molto preoccupato.
Talmente preoccupato che parlava di dimettersi e, ben
sapendo che si trattava d'un bravo prefetto, più volte
esclamai: «Per carità! Non lo dica nemmeno». Poi gli
chiesi perché al sindaco e al presidente della Regione
non avesse obiettato che quel Social Forum non doveva
svolgersi a Firenze in quanto egli non poteva
garantire la sicurezza d'una città così preziosa e
così vulnerabile. Ma lui rispose che una cosa simile
avrebbe screditato lo Stato: il suo dovere era
garantire ad ogni costo quella sicurezza. Allora il
discorso si spostò sul centro storico, sulla necessità
che il centro storico non ne venisse coinvolto. Gli
mostrai la mappa della città. Gli spiegai che da ogni
piazza, ogni strada, ogni stradina, ogni vicolo, a
Firenze si accedeva al centro storico. Gli raccontai
l'episodio dei contestatori livornesi che
nell'Ottocento, al tempo del triumvirato
Mazzoni-Guerrazzi-Montanelli, s'erano installati
proprio alla Fortezza da Basso. E di lì, attraverso le
stradine e i vicoli, nel centro storico. Devastandolo.
Mi ascoltò zitto zitto. Poi mi suggerì di parlare
anche con De Gennaro, il capo della polizia, e mi
pungolò a vedere chiunque potesse convincere la
sgomentevole coppia a cambiare idea: ritirare
l'invito. Ad esempio, il neoministro degli Interni
Pisanu. Il secondo che incontrai fu Pisanu. Per
parlarci andai addirittura a Roma. Ed anche Pisanu mi
apparve molto preoccupato. Scriveva tutto ciò che gli
dicevo su un minuscolo block-notes, ricordo, e
ripeteva: «Lo faccio perché sono qui da poco. Su certe
cose so poco, e questa faccenda è seria». Il terzo
incontro fu con Fassino e...
Perché Fassino e non coloro che chiama la
«sgomentevole coppia»?
Perché io non sono un politico, e quando una persona
m'è antipatica non riesco ad avvicinarla. Stringerle
la mano mi mette a disagio, mi sembra un'ipocrisia.
Del resto non sarebbe servito a nulla. Il sindaco non
faceva che sostenere l'idea, dire che straordinaria
occasione era avere i no-global a Firenze. E quando lo
avevo conosciuto due anni prima, cioè al tempo della
tenda eretta dai somali in piazza del Duomo, non mi
era parso un tipo molto energico. Un tipo audace.
Quanto al presidente della Regione, si comportava come
se avere i no-global a Firenze fosse una benedizione
di Dio. E non dimentichi che l'idea di invitarli non
gli era venuta a Porto Alegre, cioè lo scorso aprile.
A parlarne aveva incominciato verso lo scorso
settembre, cioè dopo il crollo delle Torri Gemelle, e
perbacco: non mi sembra mica tanto civile reagire al
massacro di quattromila americani (la cifra include
quelli di Washington) invitando i simboli stessi
dell'antiamericanismo, i bravi-ragazzi per cui Bin
Laden è un Libertador. Qualcuno, è vero, mi suggeriva
di parlare con quello dell'erre moscia. Il rifondarolo
che in questi giorni non fa che insultarmi, accusarmi
di «odiare l'umanità». Coi no-global, infatti, egli ha
rapporti assai affettuosi. Dei no-global è un grande
estimatore. Qualche altro mi suggeriva di parlare con
Cofferati che al Social Forum di Firenze era
assolutamente contrario. Ma neanche per il primo ho
mai avuto una gran simpatia, il secondo m'è sempre
parso un tipo che non dice ad alta voce quello che
pensa. E non potendo immaginare ciò che gli frullava
in testa, preferii vedere Fassino che del resto
giudicavo il più affidabile. Il più serio. Né mi pare
d'aver scelto male. Perché è stato lui a lanciare il
«chi-va-là» alla sinistra. E al corteo non ha
partecipato, al Social Forum non s'è nemmeno
presentato. (Bravo Fassino).
E a Fassino che disse?
Gli dissi le stesse cose che avevo detto a Pisanu, più
qualcosa che riguardava soltanto lui e il suo
schieramento politico. Gli dissi: «Ma si rende conto,
Fassino, che se i facinorosi devastano Firenze come
hanno devastato le altre città, se imbrattano il David
o rompono il braccio al Perseo, se bruciano il Ponte
Vecchio o spaccano il naso a una Naiade del
Giambologna, i primi ad esser coperti di merda siete
proprio voi della sinistra?». E a udire il brutale
vocabolo «merda», lui così educato, così soigné, si
raggricciò tutto. Poi, con voce mesta rispose: «Me ne
rendo conto, me ne rendo conto...». Sia con lui che
con gli altri, i contatti continuarono fino
all'autunno. E con tale impegno, da parte mia, che per
finire la traduzione ci misi più tempo di quanto avrei
dovuto. A New York potei rientrare soltanto ai primi
di ottobre, e vuol saperla tutta? Nemmeno a New York
smisi di dedicarmi al problema di Firenze. Infatti
riuscii a convincere i miei interlocutori sul punto
ormai fondamentale: fare in modo che il corteo non
passasse dal centro storico, evitare che i monumenti
pagassero il fio di eventuali scontri e bombolette
spray. Poi, all'improvviso, tutto tacque. E mentre ero
a Washington cioè all'American Institute per fare il
discorso che ho pubblicato sul Corriere, lessi che
Pisanu era andato in Parlamento per esporre i pericoli
del raduno e chiedere il parere dell'opposizione.
Anche il sindaco e il presidente della Regione che ora
vanno in giro a raccontar balle, a vantarsi di non
aver mai avuto dubbi
sull'esito-pacifico-dell'iniziativa, ora si mostravano
preoccupati anzi spaventati. «Eh, sì: certe
preoccupazioni sono legittime!». «Eh, sì: Roma deve
garantire la sicurezza». E il prefetto, lo stesso. Il
governo, lo stesso. L'opposizione, lo stesso. Ormai
tutti s'aspettavano il peggio. Tutti. Nessuno dunque
mi dica che invitando i fiorentini ad esprimere il
loro sdegno io esageravo. Se no gli cresce un naso
lungo come quello di Pinocchio.
Ma lo sa che la sgomentevole coppia ora vorrebbe le
scuse di coloro che chiamano allarmisti?
Scuseeee?!? Sono io, siamo noi fiorentini che esigiamo
le loro scuse! Le esigiamo per il calvario d'angoscia
e di pena che da aprile a novembre hanno imposto alla
città. Le esigiamo per il denaro pubblico che con
questa avventura hanno fatto spendere alla città. Le
esigiamo per il rischio che con questa avventura hanno
fatto correre alla città. Le esigiamo per aver offeso
Firenze coi ritratti di Bin Laden, con il loro
antiamericanismo travestito da pacifismo. Gli è andata
bene, a quei due. Perché se Cofferati non avesse
effettuato il geniale colpo-di-stato, se non avesse
narcotizzato i bravi-ragazzi con i suoi servizi
d'ordine e i suoi operai della Fiom e i suoi portuali
di Livorno, ora entrambi dovrebbero presentare le
dimissioni. O verrebbero cacciati a furor di popolo.
Quanto alla parola allarmismo, non diciamo
sciocchezze. Se un allarme è giustificato, né
moralmente né giuridicamente si può avanzare una
simile accusa. Dopo l'assicurazione che il corteo non
sarebbe entrato nel centro storico della città, del
resto, io non ho affatto escluso che a Firenze si
potessero evitare le solite devastazioni. È possibile
«che per non perder la faccia e i loro privilegi, gli
squallidi mecenati del Social Forum convincano i
bravi-ragazzi a rimangiarsi la promessa
non-sarà-una-manifestazione-non-violenta» ho scritto
più volte nell'articolo. E, come dicevano gli antichi
romani, verba volant sed scripta manent. Le parole
volano ma gli scritti rimangono.
Quindi la gratitudine di cui ho parlato nel pezzo e
nel titolo del mio articolo dovrebbe essere espressa
anzitutto da chi ora pretende le scuse.
Ma che me ne importa della gratitudine! Certe cose non
si fanno mica per ricevere gratitudine! Si fanno per
dovere, si fanno per amore! E se insieme a Firenze si
sono salvati quei due, pazienza. Andrò all'inferno,
pagherò per la colpa. L'importante era che Firenze si
salvasse. E in quel senso nessuno è più felice di me.
Cos'altro le ha dato felicità o almeno consolazione,
sollievo, durante la giornata di sabato?
Sollievo? Lo spettacolo di Firenze con le saracinesche
abbassate, le strade e le piazze vuote, le persiane
chiuse. Tante persiane chiuse. Io a quello non avevo
pensato. Quello non l'avevo chiesto ai fiorentini. E
al mattino, quando sono uscita... Perché di primo
mattino sono uscita per vedere se i fiorentini mi
avevano ascoltato. E perbacco se mi avevano ascoltato!
Tutti i negozi erano chiusi, tutti. Era chiuso perfino
Rivoire: il famoso bar di piazza Signoria ai cui
proprietari durante l'estate avevo già suggerito di
chiudere per protesta. E nelle strade, nelle piazze
dall'alba prive di taxi, non vedevi che poliziotti con
le camionette. Ogni tanto, qualche gruppo di no-global
col tamburo e la bandiera rossa. Non era uno
spettacolo allegro, no: a me sembrava di riveder la
Firenze del 1944. Quella occupata dai tedeschi e
martoriata dai bombardamenti. E a guardarla mi si
stringeva il cuore. Però era anche la Firenze che
nell'articolo avevo chiesto ai fiorentini di offrire
al mondo per protestare contro la violenza morale che
stava subendo. Una Firenze offesa ferita tradita
eppure orgogliosa. E consolata pensavo: «Mi hanno
ascoltato, perbacco, mi hanno ascoltato... ». Verso
mezzogiorno ci sono tornata con Serra. Col suo autista
e il suo vice (niente nutrita-scorta-di-carabinieri).
Serra mi ha portato dove a piedi non potevo andare. Mi
ha mostrato i lungarni dal ponte alla Vittoria fino al
ponte San Niccolò, mi ha mostrato i viali che il
corteo avrebbe percorso partendo dalla Fortezza da
Basso. E, non di rado, lì i negozi erano aperti. Però
c'era lo stesso silenzio, la stessa immobilità. E nel
primo pomeriggio, quando a piedi sono tornata nel
centro storico per vedere se qualcuno avesse cambiato
idea, idem. (Lo so che alcuni cronisti in cerca di
scoop s'erano appostati nei pressi della porta da cui
aspettavano che uscissi. Ma quel palazzo ha due
entrate, ed io andavo e venivo dall'altra porta). La
felicità, invece, l'ho provata a tarda sera, quando ho
saputo che l'adunata oceanica stava defluendo verso i
treni ed i pullman. Cioè quando è apparso chiaro che i
disubbidienti erano stati ubbidienti, che i prepotenti
s'erano arresi alle truppe del Bonaparte. E, nel buio,
sono tornata ancora una volta in piazza Signoria.
C'ero andata anche la sera prima, in piazza Signoria.
E sempre col cuore stretto m'ero messa dinanzi al
Perseo di Benvenuto Cellini, gli avevo detto:
«Speriamo che non ti succeda qualcosa!». Ora, invece,
il mio cuore cantava, e col cuore che cantava gli
dicevo: «Ce l'abbiamo fatta, ce l'abbiamo fatta! E
lascia pure che quei due se ne godano i vantaggi».
Però ha pagato un altissimo prezzo, per questo. Ha
pagato con l'odio, le ingiurie, le offese, le
calunnie, gli sberleffi, le perfidie che le hanno
scaraventato addosso. Ha pagato col crucifige, anzi
col linciaggio più indecente, più scandaloso, più
ignobile, al quale abbia mai assistito...
Caro mio, io ho sempre pagato per dire quello che dico
ed essere quella che sono. Una persona che dice «pane
al pane e vino al vino», che butta in faccia la
verità, che non si piega dinanzi ai ricatti o alle
imposizioni. Una persona libera. Tutta la mia vita
professionale è stata un crucifige. Ogni mio libro e
quasi ogni mio articolo è stato vittima d'un
linciaggio. Pensi a ciò che accadde con Lettera a un
bambino mai nato, pensi a ciò che accadde per Un Uomo.
Pensi a ciò che ancora accade per La Rabbia e
l'Orgoglio in Italia, in Francia, in Germania, in
Spagna, eccetera. Oppure pensi a ciò che accadde nel
1969 col mio reportage da Hanoi. Per due anni la
guerra in Vietnam l'avevo seguita dal Vietnam del Sud.
E da qui l'avevo criticata, condannata, maledetta.
Così nel 1969 il regime di Ho Chi Min mi invitò ad
Hanoi e andai nel Vietnam del Nord. Ma qui vidi gli
stessi orrori che avevo visto nel Vietnam del Sud più
la tirannia che quel regime esercitava sui suoi
cittadini. Con la stessa indipendenza di giudizio che
m'aveva guidato a Saigon scrissi il reportage da
Hanoi, ed apriti cielo! Coloro che fino a quel momento
m'avevano complimentato elogiato osannato mi
scagliarono addosso insulti così infami, calunnie così
vergognose, che solo a ripensarci m'infurio. Neanche
per un attimo tennero conto del fatto che l'autore
anzi l'autrice di quel reportage fosse la stessa
persona che da Saigon aveva condannato e condannava la
guerra in Vietnam e con la guerra il regime di Thieu.
Che ad Hanoi tale persona avesse lo stesso cervello,
lo stesso cuore, la stessa morale, la stessa visione
della vita che aveva a Saigon. Dopo l'articolo sui
no-global a Firenze è successa la medesima cosa. È
aumentata soltanto la virulenza. E in molti casi la
cretineria, la volgarità dei linciatori. Alcuni non
hanno tenuto neanche conto del rispetto che si deve a
una persona non più giovane.
Incominciando dai politici, anzi dai miei colleghi
giornalisti.
Un bieco individuo che s'era già scagliato contro la
mia difesa della cultura occidentale, uno che pur
essendo ebreo detesta Israele, si è abbassato fino a
impreziosire il suo talk-show televisivo disegnando un
paio di baffi sulla mia fotografia. Ed ogni sera se ne
vanta come se avesse compiuto un'impresa egregia, un
atto di eroismo. Si rivolge ai suoi spettatori e dice:
«Vi avevo promesso di mettere i baffi alla Fallaci e
l'ho fatto. Io mantengo sempre gli impegni». Un furbo
parassita che da un anno vive all'ombra de La Rabbia e
l'Orgoglio ha invece dichiarato che io non sono un
caso politico o culturale, ma un «caso clinico». (E va
da sé che sul Corriere della Sera Piero Ostellino gli
ha risposto che il caso clinico è lui, poveretto. Lui
che cambia ogni poco gabbana, ed ora lecca i piedi a
Mao, ora li lecca a Pol Pot, ora a Khomeini. Sicché
«se capitasse in un convento di monache rischierebbe
di uscirne vestito da suora»). Il segretario del
Partito dei Comunisti italiani, nonché ex ministro
della Giustizia nel governo dell'Ulivo, ha dichiarato
di non leggermi perché «gli faccio schifo». (Signor
Diliberto o come si chiama, contraccambio l'omaggio di
tutto cuore. Se io faccio schifo a Lei, Lei fa schifo
a me). Una giornalista che credevo intelligente, un
po' spocchiosa ma intelligente, ha associato il mio
nome a quello di Berlusconi: personaggio che nel mio
libro tratto con molta durezza. Mi ha accusato di
propagare stereotipi, di telefonare confidenzialmente
ai potenti, e di andar di pari passo col gregge (il
Popolo lei lo chiama «gregge»). E il giovane
segretario d'un partito che ormai non conta più nulla
perché ha sprecato tutte le occasioni che la storia
gli aveva offerto, s'è permesso di dire che io indosso
una tuta come il Rambo che guida i Disubbidienti. «Lui
ce l'ha bianca e lei di un altro colore». (Quale
colore, giovanotto? Abbia il coraggio di dirmelo in
faccia, che poi ci vediamo a quattr'occhi). Le
femministe che un tempo mi definivano
male-chauvinist-pig, quasi tutte senatrici di non
tenera età, hanno strillato che sono «una vecchia
rimbecillita». E per insinuare che la Fallaci è
frivola, che i negozi erano aperti, un cretino
televisivo ha detto: «Sabato mattina la Fallaci è
stata vista a passeggio nel centro storico dove faceva
lo shopping».
E in tanta indecenza cos'è che l'ha impressionata di
più?
L'episodio di cui non le ho parlato. Quello dei
no-global che al Social Forum volevano bruciare i miei
libri. Mi ha colpito in modo particolare, sì. Perché
non so immaginare niente di più fascista, di più
nazista, dei mascalzoni che bruciano i libri scritti
da chi non la pensa come loro. Se non sbaglio negli
anni Trenta, a Berlino, le Camicie Brune di Hitler
incominciarono proprio col rogo di libri. Anzi, delle
librerie. Oh sì, c'è qualcosa di marcio e insieme di
ambiguo in questi no-global che cercano la Ricetta
della Pace e poi fanno solo atti di guerra. C'è un
cattivo odore, un odore di fascismo, di nazismo.
Ma come si sentiva durante il linciaggio?
Spesso, non ci crederà, quasi divertita. Perché in
quei giorni accadevano cose molto importanti. La
vittoria che Bush ha riportato nelle elezioni a medio
termine, ad esempio. Il suo tira e molla con la
Francia e la Russia e l'Onu per imporre l'ultimatum a
Saddam Hussein. Il voto unanime dato dal Consiglio di
Sicurezza per imporre gli ispettori. La vittoria del
partito islamico in Turchia, la domanda se la Turchia
debba anzi possa entrare nell'Unione Europea.
(Mioddio). E loro stavan lì a spettegolare sul diavolo
e sull'acqua santa. Io, il diavolo: naturalmente. Il
Social Forum, l'acqua santa. Aprivi un giornale,
qualsiasi giornale, e vedevi il nome Fallaci. L'infame
Oriana Fallaci. Aprivi la televisione, qualsiasi
televisione, e udivi il nome Fallaci. L'iniqua Oriana
Fallaci. Per crocifiggerla, linciarla, nel modo che si
è detto. Sembrava che il destino del mondo dipendesse
dal crimine che la Fallaci aveva commesso invitando i
fiorentini ad abbassare le saracinesche. Ma il mio
quasi-divertimento, ahimè, era sempre accompagnato dal
disgusto e dall'indignazione. E il disgusto ha
raggiunto il suo apice quando dalle ingiurie s'è
passati alle menzogne. L'autore del magistrale
sgambetto che chiamo geniale colpo-di-stato, m'ha
accusato ad esempio d'aver scritto un articolo che
«predica la violenza» e che sputa «odio, anzi
disprezzo» per la mia città. (Mi rilegga, signor mio,
e mi chieda scusa. Il mio articolo era anzi è un grido
disperato contro la violenza e un urlo d'amore
appassionato per la mia città. Verba volant sed
scripta manent). Un ometto il cui nome non ricordo mai
e di cui so soltanto che guida le Tute Bianche mi ha
accusato «d'aver chiesto ai fiorentini di rizzare le
barricate». (Mi rilegga, signor mio, e si vergogni.
Quando mai e dove ho chiesto ai fiorentini di «rizzare
le barricate»?!? Ai fiorentini ho chiesto di
protestare «in maniera civile. Educata, civile». Verba
volant sed scripta manent). Un'attricetta che fa le
caricature dei personaggi ha irriso sulla mia malattia
e s'è messa in testa l'elmetto per darmi di
guerrafondaia. (Giovanotta, essendo una persona civile
io le auguro che il cancro non le venga mai. Così non
ha bisogno di quell'esperienza per capire che sul
cancro non si può scherzare. Quanto alla guerra che
lei ha visto soltanto al cinematografo, per odiarla
non ho certo bisogno del suo presunto pacifismo.
Infatti la conosco fin da ragazzina quando insieme ai
miei genitori combattevo per dare a lei e ai suoi
compari la libertà di cui vi approfittate). Il fatto è
che loro fanno sempre così. È quasi un secolo che
fanno così. Che seguono il modello o, se preferisce,
il metodo bolscevico anzi stalinista. Perché sa su che
cosa si basa il metodo bolscevico anzi stalinista? Nel
perseguitare l'avversario attraverso la calunnia e
l'oltraggio e la menzogna. Nel diffamarlo, offenderlo,
ridicolizzarlo, demonizzarlo. Nell'attribuirgli cose
che non ha fatto, cose che non ha detto. Cose che non
ha scritto. Infine, nel mandarlo in un gulag o
buttarlo dinanzi a un plotone d'esecuzione...
Franca Rame non è stata da meno. Le ha dato di
terrorista.
Già. Dinanzi alla Basilica di Santa Croce, dal
palcoscenico del comizio che ha aperto l'oceanico
raduno. Sicché, quando la sua discepola cioè quella
delle caricature è andata alla Fortezza da Basso con
l'elmetto in testa, molti bravi-ragazzi l'hanno
scambiata per me. Si son messi a ulularle «Lercia
terrorista, lercia terrorista». Del resto il marito
della summenzionata ha detto che a Firenze io volevo i
carri armati.
Mi chiedo che cosa provasse a guardarli.
A parte il disprezzo, intende dire? Una specie di
pena. Perché v'era un che di penoso in quei due vecchi
che per piacere ai giovani radunati in piazza si
sgolavano e si sbracciavano sul palcoscenico montato
dinanzi a Santa Croce, quindi dinanzi al porticato che
un tempo immetteva al Sacrario dei Caduti Fascisti. In
loro non vedevo dignità, ecco. A un certo punto
l'amico che con me li guardava alla tv ha sussurrato:
«Ma lo sai che lui militava nella Repubblica di
Salò?». Non lo sapevo, no. Come essere umano non mi ha
mai interessato. Come giullare, non m'è mai piaciuto.
Come autore l'ho sempre bocciato, e la sua biografia
non mi ha mai incuriosito. Così sono rimasta sorpresa,
io che parlo sempre di fascisti rossi e di fascisti
neri. Io che non mi sorprendo mai di nulla e non batto
ciglio se vengo a sapere che prima d'essere un
fascista rosso uno è stato un fascista nero, prima
d'essere un fascista nero uno è stato un fascista
rosso. E mentre lo fissavo sorpresa ho rivisto mio
padre che nel 1944 venne torturato proprio da quelli
della Repubblica di Salò. M'è calata una nebbia sugli
occhi e mi sono chiesta come avrebbe reagito mio padre
a vedere sua figlia oltraggiata e calunniata in
pubblico da uno che era appartenuto alla Repubblica di
Salò. Da un camerata di quelli che lo avevano
fracassato di botte, bruciacchiato con le scariche
elettriche e le sigarette, reso quasi completamente
sdentato. Irriconoscibile. Talmente irriconoscibile
che, quando ci fu permesso di vederlo e andammo a
visitarlo nel carcere di via Ghibellina, credetti che
si trattasse d'uno sconosciuto. Confusa rimasi lì a
pensare chi è quest'uomo, chi è quest'uomo e lui
mormorò tutto avvilito: «Oriana, non mi saluti
nemmeno?». L'ho rivisto in quelle condizioni, sì e mi
son detta: «Povero babbo. Meno male che non li
ascolti, non soffri. Meno male che sei morto».
Possiamo...andare avanti?
No. Basta. Non voglio dire altro.
....e adesso a voi, schifosissimi merdosi, il
cicaleccio di rito!
JS
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