[Forumumbri] il ritornello infinito-disobbedire non basta

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Autor: cybergobbo
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Assunto: [Forumumbri] il ritornello infinito-disobbedire non basta
DISOBBEDIRE NON BASTA

I malintesi della nonviolenza

Paolo Persichetti

Luglio 2002

« La nonviolenza oggi è la forma di mobilitazione
che il movimento assume come proprio paradigma,
sia per la convinzione del profondo intreccio
che deve esistere tra fini e mezzi,
sia perché oggi è l'unico strumento che ci permette di costruire,
in una realtà complessa, con forti poteri sovranazionali,
quel consenso necessario per modificare le regole del gioco
e per cambiare questa nostra società ».

Vittorio Agoletto, Il Manifesto 18 Luglio 2002

I tratti addolciti del viso tradivano la sua giovane età. Si era staccato
dal gruppo e in una mano teneva una pietra che scagliò con tutta la sua
forza contro un drappello d'uomini bardati con scudi e mazze, caschi e
stivali, armi da fuoco alla cintola. Quasi appagato da quell'incosciente
gesto di sfida, s'era voltato per riguadagnare le fila dei suoi compagni.
Teneva larghe le braccia mentre le mani erano nude come in quella foto
dell'anarchico diventata un manifesto, quando l'eco d'alcuni colpi di
pistola risuonò nell'aria. I suoi compagni urlavano, mentre un poliziotto
aveva freddamente preso la mira per fucilarlo alle spalle. In quel momento
il suo sorriso si trasformò in una smorfia di dolore. Colpito alla schiena
ma ancora incredulo continuò a camminare ma le sue falcate sembravano oramai
passi di danza. Cadde sull'asfalto solo dopo aver compiuto una piroetta. Era
il giugno del 2001, a Gotebörg. Il "movimento dei movimenti" solo per poco
era scampato al suo primo morto. Un presagio maledetto che si avverò qualche
settimana più tardi a Genova, in piazza Alimonda, dove un altro giovane,
all'incirca della stessa età, venne ucciso da un coetaneo in divisa con un
colpo in mezzo agli occhi. Carlo Giuliani la morte l'ha vista in faccia
mentre gli altri manifestanti avevano avuto il tempo d'indietreggiare di
fronte a quell'arma spianata. Forse era troppo tardi per fermarsi o forse
non voleva arretrare, ma andare fino in fondo per impedire a quel braccio
teso, armato e in divisa di Stato, di continuare la sua minaccia. Due colpi,
una quiete irreale cadde d'improvviso sul campo di battaglia rotta poi da
nuove grida, mentre il corpo di Carlo veniva oltraggiato dalle ruote del
Defender dei carabinieri.

"Fiori velenosi venuti solo per sfasciare"1, non trovò migliore espressione
una dirigente dell'organizzazione antimondialista ATTAC per liquidare i
fatti di Gotebörg. Secca e adirata contro quella che ai suoi occhi sembrava
una teppaglia neoluddista, madame Susan George, trovò più che normale che
una pietra valesse un colpo di pistola tirato alle spalle. Autoconvocate,
quelle orde d'insorti in cerca di sommosse non erano gradite. Disturbavano
le ordinate kermes internazionali, i carnevali di strada, i convegni
compunti dei professionisti dell'associazionismo, questa nuova burocrazia
della società civile che pensa di poter fronteggiare gli irruenti spiriti
animali del capitalismo ultraliberale pervenuto al suo stadio globale
attraverso forme di regolazione economica, strumenti procedurali e regole
etiche. Misure inadeguate quanto l'idea di poter fermare l'Oceano in
tempesta con dei sacchetti di sabbia. Nello stesso periodo, un appello
sottoscritto da intellettuali italiani e francesi, tra cui spiccavano le
firme d'alcuni ex partecipanti ai movimenti politici degli anni Settanta,
censurava le violenze e gli scontri di piazza, in modo particolre le
brutalità commesse nei confronti di merci come "i cassonetti bruciati e le
vetrine rotte". Costoro invocavano manifestazioni ordinate e ottennero
nient'altro che le forze dell'ordine. Decisamente la storia non è
intenzionata a smentire quell'adagio che vuole ogni tragedia ripresentarsi
in farsa. Per nulla appagati da tanta stigmatizzazione etica prim'ancora che
politica, prendiparola del Forum sociale genovese e leaders d'alcune
componenti noglobal, sponsorizzati dai loro grandi elettori mediatici,
lanciarono il ritornello infinito, e per giunta dopo un anno ancora non
provato, degli infiltrati. Lo fecero a caldo, sopraffatti dal pregiudizio e
da servile paura, quando il corpo straziato di Carlo Giuliani non aveva
ancora un nome. Nei salotti volanti delle dirette RAI di prima serata che
seguivano il G8 circolava ancora la voce che il giovane ucciso fosse uno
spagnolo, di certo un basco, un black bloc in ogni caso. Gli invitati2,
ancora accaldati per aver sfilato nei cortei del pomeriggio, attaccarono le
forze di polizia colpevoli d'inerzia per aver lasciato devastare la città da
bande di facinorosi vestiti di nero. Le forze dell'ordine avevano assalito i
cortei quando questi sfilavano ancora lungo i percorsi autorizzati, in
diversi punti della città i carabinieri avevano fatto uso d'armi da fuoco,
in risposta gli acuti esponenti noglobal invece di pretendere meno forze
dell'ordine invocavano più forza pubblica in piazza. Sollecitati con tanto
ardore, il sabato successivo le forze di polizia eseguirono con zelo il loro
mandato fin dentro alla Diaz. Immemore o forse ignaro che solo nei paesi
dove vi è un controllo autoritario dello spazio pubblico le forze di polizia
organizzano e svolgono il servizio d'ordine nei cortei, l'arrogante e mai
pago presidente della LILA, Vittorio Agnoletto, pretendeva la tutela
poliziesca per le sue sfilate nonviolente. Solo in tarda serata,
sopraggiunta la notizia che quel manifestante deceduto altri non era che il
figlio di un noto sindacalista della CGIL genovese, il "reprobo" Carlo
Giuliani divenne finalmente un ragazzo da difendere, un imbarazzante martire
da far proprio.

Le rughe del conflitto

Tornate le masse, riempite le piazze, anche il conflitto si è riaffacciato
con le sue crudezze, le sue asperità e rugosità. In verità si è manifestato
con un livello di violenza di piazza estremamente basso e dalle dimensioni
sociali ristrette ma sufficienti per essere amplificato e rimbalzare sui
media. Poco, molto poco, rispetto ad altre epoche o latitudini, a tal punto
che si sarebbe potuto liquidare il fenomeno con alcune semplici domande :
quante armi da fuoco si sono viste fino ad ora tra i manifestanti ? Chi ha
invece fatto uso di armi ? Quante molotov sono state lanciate o trovate a
Genova ? Trecentomila manifestanti e forse neanche una decina bottiglie
incendiarie, per giunta di fortuna... Eppure fin da Seattle, le polemiche
sulla violenza hanno accompagnato, ed in parte anche nutrito, i raduni anti
G8, fornendo visibilità mediatica e capacità catalizzatrice al movimento
antiglobalizzazione. Perché tanta ossessiva attenzione nei confronti di
forme di violenza di strada a così bassa intensità ?

Forse una prima ragione la si può trovare nel ruolo assunto dai media, nel
loro potere di decretare ciò che è accaduto e ciò che non è accaduto. Una
dinamica perversa che tende a presentare o privilegiare come fatto avvenuto
solo ciò che può essere venduto sotto forma di spettacolo sociale. Il G8 di
Genova costituisce un esempio paradigmatico in proposito. La somma delle
ragioni esterne (calcoli e attese politiche) e delle dinamiche interne
all'informazione, proprie dell'evento mediatico, hanno prodotto un
crescendo, una sorta di tam tam che ha soffiato lungamente sul fuoco,
attizzando i rumori di rivolta. Genova doveva essere l'appuntamento della
grande sommossa. Questo s'attendevano e volevano i media, quelli di sinistra
per dare una spallata al governo di centrodestra appena insediato, quelli di
destra per demonizzare l'avversario e legittimarsi dietro il riflesso
repressivo della maggioranza silenziosa. Dopo Gotebörg nelle redazioni ci si
era già preparati all'eventualità di nuove vittime, taluni per altro
l'auspicavano politicamente. Le dirette televisive del primo pomeriggio di
venerdi 20 trasudavano delusione per la scarsità degli episodi violenti da
raccontare e mostrare. La manifestazione era ancora eccessivamente
tranquilla. Un oceano di folla non valeva le vetrine di qualche banca. Solo
più tardi, i corrispondenti hanno potuto finalmente appagare la loro sete di
vampiri eccitati con le immagini sanguinolente, i fuochi e gli scontri. Dopo
giorni e giorni di tam tam mediatico che chiamava alla rivolta, ripreso
dalle farse della guerra comunicazionale dichiarata da alcuni gruppi (tute
bianche), la trappola mediatica si è richiusa sul popolo degli ammutinati
che si era raccolto nelle strade di Genova. L'icona del black bloc, emblema
del bandito postmoderno, è stata marchiata col sigillo d'infamia
dell'infiltrato e del provocatore. Lo spettacolo sociale dava vita ad una
nuova telenovela infinita destinata a riproporre ad ogni futuro episodio una
sorta di revisionismo storico in tempo reale.

Frattura ideologica e frattura sociale

Brevemente forse vale ricordare che i movimenti sociali sono sempre stati il
prodotto di una convivenza obbligata, avvolte d'interesse, tra tendenze e
approcci diversi. Pratiche più o meno nonviolente e condotte violente hanno
coabitato ignorandosi o polemizzando, a volte persino confondendosi. A
seconda delle circostanze, l'una è prevalsa sull'altra. Movimento di massa e
forza d'urto; minaccia del numero e violenza dell'atto; forza delle ragioni
e ragioni della forza; spessore e imponenza contro agilità, visibilità e
incisività; guerra di posizione e guerra di movimento. Insomma, quando
appare, un movimento sociale di massa rassomiglia ad un poliedro, forma
geometrica dalle molteplici sfaccettature. Può accadere anche che ci siano
movimenti omogenei o egemonizzati da alcune sue componenti, ma il più delle
volte i movimenti emergono come "plurali", "molteplici", "variegati". Ora il
fenomeno antiglobalizzazione si autodefinisce "movimento dei movimenti" e
costitutivamente si ritiene attraversato dalla "contaminazione reciproca"
delle sue componenti. Niente di più normale, dunque, che in questa fiera del
molteplice vi siano dei settori (allo stato minoritari) che non escludono o
privilegiano il ricorso a forme di violenza politica o d'azione illegale.

Pertanto la semplice violenza politica di strada, e prim'ancora l'idea
stessa d'azione illegale, vengono maggioritariamente percepite dalle altre
componenti come un tabù inviolabile. Esiste un nodo ideologico di fondo,
egemone nel movimento antiglobal, che identifica la violenza come una
risorsa illegittima e l'illegalità come una soglia difficilmente valicabile.
Questa caratteristica ideologica è dovuta probabilmente alla sua attuale
composizione sociale, predominano infatti le componenti cristiane e i ceti
medi, le organizzazioni non (e para) governamentali, animate da approcci
etici alla regolazione del capitalismo (economia solidale, finanza etica e
previdenza sicura), oppure da pratiche procedurali (bilancio deliberativo),
o ancora da organizzazioni sindacali del mondo agricolo e contadino,
organismi politico-editoriali e settori istituzionali legati a posizioni
sovraniste o fordiste della politica, dello Stato e dell'economia. La
frattura ideologica e politica che si delinea attorno al problema dell'uso
eventuale della violenza e dell'illegalità ripercorre la stessa frattura
sociale che divide il nuovo mondo della precarietà, il popolo dei selvaggi
delle periferie urbane, generato dal capitalismo postfordista, dai ceti medi
o i gruppi sociali dotati di tutele sindacali e corporative che pensano di
poter regolare la globalizzazione ultraliberale.

* * *

Siamo curiosi di capire meglio cosa racchiude questa cultura che si
definisce "nonviolenta", ma che stenta a darsi una coerenza e un rigore
forti. Dietro l'etichetta nonviolenta infatti si raccolgono posizioni ed
argomenti fin troppo eterocliti che fanno pensare a volte ad un uso
strumentale di questo labello positivo, sorta di appellazione DOC,
legittimante agli occhi dei poteri costituiti. Quando il presidente della
LILA (lega italiana per la lotta all'aids), membro di rilievo nazionale del
movimento antiglobal, portavoce del mondo del volontariato, partigiano della
nonviolenza, condanna gli attacchi contro le infrastrutture e le merci
(cassonetti, vetrine di banche e società d'interim, supermercati,
concessionarie auto...) con un'acrimonia tutta particolare, che si avvale di
una stigmatizzazione etica che eccede la semplice censura politica, e poi
sfila - senza esprimere riserve - in un corteo che inneggia a massacri di
kamikaze contro una popolazione civile, qualche cosa in questa presunta
cultura della "nonviolenza" non funziona. Che un cassonetto bruciato possa
essere infinitamente più grave di un giubbetto imbottito di chiodi e
d'esplosivo fatto conflaglare dentro un autobus o nel bel mezzo di un
mercato popolare, non ci persuade.

In Italia, per diciannove anni, un'organizzazione combattente comunista, le
Brigate Rosse, ha praticato la lotta armata, realizzando attentati mortali e
ferimenti contro obiettivi statali, governativi o legati all'impresa e
all'economia capitalista, subendo anche delle perdite. Questo gruppo ha
teorizzato e messo in pratica il rifiuto sistematico del ricorso a strumenti
d'attacco, come l'esplosivo, che rischiassero anche solo ipoteticamente di
colpire nel mucchio, di ferire o uccidere involontariamente la popolazione
civile. Per queste ragioni, essa ha sempre scelto di colpire in modo
ravvicinato e con armi sicure i suoi obiettivi, mettendo ogni volta a
repentaglio i suoi stessi militanti. Iper sanzionati dalla giustizia, gli
uomini e le donne delle Brigate Rosse, come quelli e quelle d'altre
organizzazioni dello stesso tipo, sono stati stigmatizzati e
ultracriminalizzati, tra l'altro anche in nome della nonviolenza, da un tipo
di personale politico che oggi invoca miriadi di giustificazioni e
attenuanti per ridimensionare il reclutamento e poi l'invio di giovani
"martiri" imbottiti di chiodi e tritolo, da parte di capi clan e notabili
locali i quali risparmiano accuratamente i propri figli, per farsi esplodere
tra la folla, spesso appartenente ai ceti più popolari.

Questa nonviolenza a geometria variabile, questa etica delle latitudini,
merita d'essere verificata nella sua pertinenza etico-filosofica e
socio-storica. Troppo spesso gli argomenti da essa sollevati sono sorretti
solo da capovolgimenti di significati, da pregiudizi e malintesi e da una
sospetta connivenza con l'idea di legalità.

Della nonviolenza come declinazione dell'Etica

Per sostenere le ragioni della nonviolenza alcuni autori ricorrono ad
argomenti sorretti da quella che i testi definiscono etica della convinzione
anteposta all'etica della responsabilità, entrambe fondate su logiche
razionali ma che privilegiano fattori diversi: per esempio, la coincidenza
dei mezzi col fine, di contro all'asimmetria dei mezzi dal risultato.
Ragione morale contro ragione cinica insomma. Accade spesso, dunque, che il
tema della nonviolenza venga affrontato sulla base di convinzioni etiche o
religiose. Nella maggioranza dei casi, infatti, la pertinenza, o meglio la
superiorità di questo metodo è affermata facendo un uso diretto di argomenti
morali oppure lasciandosi ispirare da questi, ma pescando ragioni e tesi su
un piano storico o pragmatico.

Altri autori però, resi più accorti nella scelta dei loro argomenti dalla
fragilità delle dimostrazioni morali di fronte alle repliche dell'esperienza
storica, privilegiano nuove strategie argomentative, preferendo ricorrere
alla ragione strumentale, per spiegare come la nonviolenza si sia mostrata
storicamente più efficace e per questo (dunque su una base puramente
utilitarista) superiore. In fondo, lo stesso Gandhi usava dire che se posto
di fronte al dilemma della scelta tra passività e attività violenta, avrebbe
preferito la violenza poiché comunque questa restava una forma d'azione. E
l'azione contro ogni passività era ai suoi occhi il bene superiore3 . Ed è
vero che conquistata l'indipendenza, la nazione indiana non ebbe difficoltà
a dotarsi di uno Stato con un esercito, una polizia, dei tribunali, delle
prigioni. L'esperienza gandhiana si risolse in un incredibile paradosso,
l'abile inversione dei termini propri all'etica della responsabilità: i
mezzi al posto dei fini e i fini al posto dei mezzi. In luogo dei
tradizionali metodi dettati da un utilitarismo pragmatico (che non escludono
l'uso della forza), egli sostituì dei mezzi morali come la nonviolenza per
dare spazio a dei fini che sopprimendo gli obbiettivi etici nonviolenti
suscitavano la nascita di uno Stato, organismo che per definizione
costitutiva esercita il monopolio della forza legittima. L'essenza della
concezione gandhiana della politica si risolve in una sorta d'invito
continuo all'azione, alla lotta contro la servitù volontaria. Quella
gandhiana è stata un'etica suprema della mobilitazione, dell'agire, della
sottrazione dell'uomo alla passività e alla remissione, a quella che si può
definire come una vera e propria "malattia della volontà". In Gandhi c'è
l'idea che l'essenza della dignità umana stia nel prendersi in carico, nello
stringere tra le mani la propria vita e il proprio destino. L'uomo è in
piedi solo quando sa camminare sulle proprie gambe e scegliere autonomamente
la propria strada, altrimenti resta un mammifero supino. La lezione
gandhiana traduceva a suo modo una tradizione filosofica che almeno dalla
modernità vede iscritti pensatori della portata di Spinoza, Rousseau, La
Boetie, Marx.

La nonviolenza, intesa come comportamento fuoriuscito da una pratica che
s'ispira all'etica della convinzione, è posta di fronte ad una
insormontabile contraddizione: l'assunto etico per avere validità
intrinseca, ovvero per rispondere al criterio di coerenza interna, deve
intendersi come assoluto. Esso non può trascegliere, adattarsi alle
circostanze. Fu questo il grande dramma dei pacifisti nonviolenti del
Novecento, in particolare di fronte alla seconda guerra mondiale. Molti alla
fine raggiunsero, sulla base d'una scelta duramente meditata, le fila della
Resistenza anti-nazifascista. Presero le armi insomma. Altri, restarono
rigorosamente nonviolenti. Non vollero farsi coinvolgere dal conflitto,
nemmeno di fronte alle nefandezze naziste, ai campi di concentramento. Molti
di loro erano rimasti segnati da quel macello di carne umana che fu il primo
conflitto mondiale. Avevano assistito a quell'orribile guerra, alle
decimazioni decise dagli Stati maggiori contro le truppe insubordinate, agli
assalti suicidi contro le linee nemiche. "Mai più !", s'erano detti. Les
chemin des dames, in Francia, luogo mitico come da noi furono le alture del
Carso, evoca immagini terribili d'uomini immersi nel fango intriso di
sangue, dove orde di soldati venivano lanciati all'assalto e obbligati a
calpestare i corpi dei propri compagni falciati dal fuoco nemico, per giorni
e giorni, settimane intere. In Italia, le truppe venivano sospinte in avanti
a suon di cannonate sulle retrovie, sparate non dal fuoco nemico ma da
quello amico su ordine degli Alti comandi, mentre i carabinieri seguivano e
arrestavano, fucilando sul campo chi rimaneva in trincea o s'imboscava nelle
buche sotto i cadaveri. In Francia, a causa della loro scelta pacifista,
molti militanti nonviolenti furono processati, comunque invisi perché
sospettati di connivenza con la repubblica nazional-fascista di Vichy, che
firmò l'armistizio e poi collaborò attivamente col nazismo.

Ora la nonviolenza etica, per le ragioni "predittive" che la caratterizzano
(l'evocazione qui e ora, hic et nunc, della società che sarà domani), per la
sua pretesa d'anticipare nei metodi una delle regole della società futura,
dovrebbe condurre ad una rottura drastica, nettissima (non a caso Thoreau
propugnava il rifiuto di pagare le tasse e l'obiezione di coscienza) con
qualsiasi ordine costituito che esprimesse violenza, dunque innanzitutto con
quell'organo che per definizione esercita la "violenza legittima", ovvero la
coercizione legale, quale è lo Stato. Ogni atteggiamento che non fosse
coerente con questa condotta verrebbe in qualche modo a trasgredire
l'enunciato etico adeguando il proprio comportamento a ragioni d'opportunità
inammissibili secondo i presupposti morali affermati. Il nonviolento non
dovrebbe credere, ne tanto meno rispettare, i codici di procedura e i codici
penali, i tribunali, la magistratura, per quello che esprimono e
rappresentano: la legalità. E la legalità è per definizione l'esercizio
procedurale di una dose (che s'accresce secondo le esigenze) di coercizione
e violenza ritenuta necessaria alla regolazione sociale.

E se delle ragioni - anche comprensibili - d'opportunità vengono evocate,
allora si abbandona il terreno dell'etica della convinzione per entrare in
quello della responsabilità. Ovvero si sceglie di attuare una strategia i
cui mezzi sono (nella fattispecie l'accettazione passiva di una violenza
statuale sovrastante), per forza maggiore, non completamente conformi con i
fini. Insomma, l'opzione nonviolenta diverrebbe una delle tante strategie
dotate di tattiche duttili, fatte di compromessi, ragioni di circostanza,
opportunità, ecc. In questo caso, poi, sarebbe ancora più sospetto un
atteggiamento di censura netta della violenza esercitata da soggetti deboli,
oppositori, contestatori, in ogni caso non appartenenti alle classi
dominanti (detentrici del potere economico-finanziario e politico), senza
un'eguale condanna aperta e un'azione di disobbedienza attiva e
corrispettiva verso lo Stato. Non solo quando questi esercita materialmente
violenza attiva, ma per il fatto stesso d'esistere in quanto istituzione. E
se anche solo per brevità, tralasciamo il fatto che lo Stato sia quel grande
Moloc che si è imposto grazie ad una violenza originaria potentissima e
irresistibile che ha travolto le forme d'organizzazione sociale
preesistenti, non si può non ricordare che lo Stato di diritto contemporaneo
esprime tuttora quella che alcune teorie sociologiche chiamano la violenza
simbolica. Ovvero: "quella violenza dolce, invisibile, sconosciuta come
tale, scelta quanto subita" (Pierre Bourdieu, Le Sens pratique, Minuit,
Parigi 1980). Una violenza mascherata che cela dietro una falsa naturalità
gerarchie di valori, saperi, una somma d'ineguaglianze storicamente
costruite che esprimono un rapporto di dominazione il più delle volte
interiorizzato dai dominati.

Della nonviolenza come ragione pratica
La letteratura nonviolenta non risparmia argomenti in favore della
possibilità d'affermare l'efficacia delle sue ragioni e dei suoi metodi
sulla base d'un presupposto puramente " pragmatico ", ovvero l'analisi di
pratiche storiche concrete, misurando " quali siano i mezzi che hanno
maggiori possibilità di ridurre sofferenza, aumentare la giustizia e creare
una nuova società "4. Terreno impervio, quasi improbo, quello delle pratiche
concrete, accidentato da numerosi malintesi, confusioni ed equivoci storici,
dovuti essenzialmente alla scarsa sistematicità del "pensiero nonviolento",
al suo carattere spesso approssimato, poco aduso al rigore del concetto.

Una prima difficoltà sorge con i codici linguistici. Infatti, i riferimenti
non sono affatto gli stessi tra i termini del dibattito che circola in Nord
America e il dibattito Europeo. Testi della letteratura nonviolenta
statunitense definiscono " metodi convenzionali " della lotta politica: le
campagne elettorali, la propaganda politica, le azioni legali, le petizioni,
la compilazione di lettere pubbliche, le attività di lobbing. Questi metodi
sono ritenuti: altra cosa dall'azione nonviolenta, la quale definisce
innanzitutto le " manifestazioni che hanno origine a livello popolare,
quando le persone hanno bisogno d'agitazione di piazza per conseguire uno
scopo"5. Questa definizione "a maglie larghe" sembra voler dire che l'azione
nonviolenta si distingue dai metodi tradizionali perché non produce delega
politica, non chiede mediazioni rappresentative ma si fonda sull'azione
diretta, la partecipazione attiva dei soggetti popolari (e perché no delle
classi medie ?); in secondo luogo, perché i requisiti di questa azione non
tengono conto dei limiti imposti dal codice penale. Insomma, l'azione
nonviolenta se ne infischia d'essere illegale. Se presa alla lettera, questa
concezione della nonviolenza solleva numerosi problemi rispetto
all'accezione che di essa viene fatta in Europa ed in modo particolare in
Italia, dove i gruppi sedicenti nonviolenti fanno larga incetta di metodi
"convenzionali", di deleghe e d'incoronazioni mediatiche e governamentali
(vedi Genova), e confondono la nonviolenza con il rispetto pedissequo del
codice penale.

Un secondo problema d'ordine storico sorge quando vengono citate alcune
forme d'azione ritenute nonviolente: manifestazioni, sit-in (presidi),
occupazioni e scioperi, boicottaggi 6. Ecco che una parte dell'arsenale più
tradizionale delle pratiche esercitate nella storia del movimento operaio e
dai gruppi politici a lui ispiratesi dal 1848 ad oggi (anarchici,
socialisti, comunisti, di varia natura e credo, scuola, Internazionale - ma
anche prima, si vedano i Luddisti, come spiega lo storico inglese Edward
Thompson in, La formation de la classe ouvrière anglaise. Essi infatti non
distruggevano solo i macchinari di fabbrica ma organizzavano scioperi,
manifestazioni, praticando le prime forme d'agitazione politica operaia),
diventano di colpo gli strumenti privilegiati dell'azione nonviolenta.
Difficilmente si può contestare che queste forme di lotta appartengono al
patrimonio genetico della cultura politica figlia del movimento operaio, il
quale si è distinto storicamente dall'adesione teorica e pratica alla
nonviolenza. Il movimento operaio è stato insurrezionale, rivoluzionario,
violento, oppure riformista, legalista, istituzionale, ma solo marginalmente
nonviolento (nonviolente, forse, possono essere ritenute le società
filantropiche, o quelle fabiane e cartiste inglesi che si battevano per un
riconoscimento dei diritti politici agli albori del movimento operaio, con
strategie petizionarie. Strumenti che però la letteratura nonviolenta più
radicale considera oggi convenzionali).

Le strade sono larghe, c'è posto per chiunque voglia condividere, gomito a
gomito, i marciapiedi e le piazze, aderire o fare uso dello sciopero, delle
occupazioni, dei presisdi ecc., ciò detto, però, è evidente che non può
essere intrattenuta la confusione tra nonviolenza e semplice partecipazione
a manifestazioni cosiddette "pacifiche", ovvero l'azione di massa, più o
meno legale a seconda delle epoche e degli ordinamenti costituzionali. Una
condotta condivisa trasversalmente dai più diversi orizzonti politici,
sociali e religiosi. Se nonviolenza è sfilare legalmente e pacificamente
lungo le strade, oppure occupare provvisoriamente delle piazze, previa
autorizzazione fornita dalla questura, allora anche la manifestazione di
Forza Italia del 19 novembre 2001, a Piazza del Popolo, era una iniziativa
nonviolenta, al pari delle manifestazioni dei poliziotti francesi, che nello
scorso dicembre hanno riempito le piazze rivendicando più soldi per le loro
tasche e più prigione per gli altri cittadini. Qualunque manifestazione
pacifica e legale, quelle attuate dalle forze di governo, come quelle
dell'opposizione parlamentare, ovvero da forze politiche che non fanno
minimamente cenno nei loro programmi, proclami e statuti, alla nonviolenza,
che mai hanno contestato l'esercizio della violenza monopolistica da parte
dello Stato e dei suoi apparati coercitivi, sarebbero l'espressione di
pratiche nonviolente. Si arriverebbe al paradosso che si potrebbe
manifestare in un modo ritenuto nonviolento l'adesione ed il sostegno ad una
guerra. Evidentemente, in questo tipo di ragionamento, qualcosa non va !

Sciopero e nonviolenza
É un errore includere lo sciopero del lavoro come quello della fame nella
lotta nonviolenta. E se il primo non è affatto ascrivibile come metodo
peculiare alla tradizione nonviolenta, il secondo pur essendo una delle
forme più identitarie delle condotte nonviolente, è ben lontano dall'essere
un comportamento privo di violenza.

Lo sciopero del lavoro nella sua essenza è un'azione d'insubordinazione
profonda, di confronto brutale tra rapporti di forza che sovente esula tutte
le forme e le procedure: incrociare le braccia, tutti insieme, per bloccare
la produzione delle merci padronali. Lo sciopero è un attacco durissimo alla
proprietà, all'essenza della valorizzazione del capitale, poiché intacca le
merci nel cuore della loro produzione mettendone in gioco la sopravvivenza.
Proprio per questo la reazione padronale è stata sempre ferrea, senza
risparmio di mezzi repressivi: venivano organizzate le serrate, reclutati i
crumiri, organizzate le provocazioni di uomini di mano prezzolati,
sollecitato l'invio della polizia, dell'esercito, lo scatenamento della
magistratura. Gli operai allora furono costretti a difendere il loro
sciopero, per non essere sconfitti prima di cominciare. Lo dovettero
difendere conquistando l'autonomia gestionale e dunque politica delle
società di mutuo soccorso, che erano nate, con Bismarck in Germania ed il
secondo impero in Francia, come cinghie di trasmissione dirette del
controllo statale sulla condizione operaia, attraverso la presidenza
d'ufficio attribuita a commissari di polizia o a notabili fedeli. Nacquero
poi i picchetti (ovvero il fatto d'impedire ai non scioperanti con
l'intimidazione del numero, la presenza e la forza fisica, di entrare nei
luoghi di lavoro. Infrazione prevista dal codice penale), le occupazioni
(invasione per mezzo d'effrazione, intimidazione e forza fisica di proprietà
altrui. Infrazione sanzionata dal codice penale), i boicottaggi e i
sabotaggi (distruzione di beni e proprietà altrui. Infrazione perseguita dal
codice penale), attorno ai quali per quasi due secoli si sono svolte lotte
durissime, drammatiche, intrise di sangue, prigione e miseria, anche quando
lo sciopero è infine divenuto un diritto tutelato costituzionalmente. Lo
sciopero è stato e resta tutt'ora (seppur con attenuazioni, modalità e
impieghi differenti) lo strumento comune a tutte le anime del movimento
operaio, ma in particolare lo sciopero generale è stato un riferimento quasi
mitico che ha alimentato gli universi ideologici più ribelli, contestatari e
rivoluzionari : si pensi alla pratica divenuta a volte mito, dello "sciopero
insurrezionale", l'elemento che doveva innescare "l'ora x", l'assalto finale
(le officine Putilov nel 1917, quelle Fiat nel 1943), il connubio tra
violenza insurrezionale e sciopero generale propugnato dal socialista George
Sorel, autore del famoso libro, Grève générale et violence.

Lo sciopero della fame, poi, è semplicemente una forma di violenza mutata di
segno, non più aggressiva ma autoagressiva. E' autofagia del corpo che
comincia a nutrirsi dei grassi residui, i grassi bruni e poi di quelli che
avvolgono gli organi vitali. Lo sciopero della fame è l'essenza ultima della
vita nuda in rivolta, stadio finale d'un ammasso di carni messo ai margini,
d'una esistenza ridotta a semplice carcassa che pur vedendosi dimagrire
riesce ancora a sentirsi pesante. Chiuso ogni spazio alla parola e
all'azione, resta il corpo nudo da mettere in gioco. Parola e azione
agiscono in una comunità, entrano in rete, ma quando non c'è più possibilità
di relazione, il corpo divorandosi diventa uno strumento di parola, forma
ultima ed estrema d'insubordinazione. Lo sciopero della fame è accettabile
quando a praticarla sono individui ridotti alla loro carcassa, prigionieri o
schiavi in nude celle sotto sorveglianza, ma diventa una strategia del
ricatto, moralmente disprezzabile, quando è impiegato demagogicamente da
deputati e portaborse sotto i riflettori dei media. Altra cosa sono poi i
digiuni propri della tradizione ascetica e spiritualista, iscritta nella
cultura di molte religioni rivelate o senza theos, percorsi di purificazione
intima, di testimonianza individuale, d'autismo politico o d'anoressia
sociale. Una "bulimia dell'anima" che odia il proprio corpo, lo trova
sudicio e vuole liberarsene, elevandosi dalla sostanza terrena oppure
fondendosi col resto della materia naturale. Questa "fuga da se stessi" è
difficilmente conciliabile con i parametri della razionalità politica
Occidentale, in ogni caso è solo demagogia fatta col corpo voler iscrivere
la natura asociale dei digiuni purificatori nelle pratiche della lotta
politica che conosciamo e pratichiamo, o addirittura in quella del ceto
politico-istituzionale.

La nonviolenza nella storia: un bilancio
Due sono gli episodi storici di maggiore importanza che appartengono alle
fondamenta della cultura e dell'immaginario nonviolento:

Il primo è legato alla nascita della nazione indiana. Incontestabilmente
l'episodio storico dove maggiore è stata la presenza della strategia
nonviolenta. Non c'è qui lo spazio per svolgere un'analisi storica
appropiata, ma quantomeno vanno fatte alcune osservazioni che ci consigliano
d'usare delle cautele di fronte al mito fondatore (tipico di ogni
nazionalismo) della nazione indiana. Se l'icona di Gandhi gioca il ruolo di
grande padre (espressione saliente di quella che Max Weber chiamava "
legittimità carismatica ", potere simbolico magnetico del profeta che può
essere ben più lungimirante e equo del demos, ma certo non è sinonimo di
potere democratico rappresentativo, partecipativo o diretto...), la
nonviolenza è un mito delle origini. Mito lontano e assai paradossale per un
paese che da allora non ha finito d'essere straziato da miriadi di conflitti
nazional-religiosi e massacri indicibili (secessione del Pakistan e guerra
latente perpetua ai suoi confini, rivolta Sik, irredentismo del Kashimir,
guerra del Bangladesh), fino al punto di dotarsi della bomba atomica. La
strategia Gandhiana si è potuta avvalere del fatto che il partito del
Congresso condivideva parte della gestione del potere coloniale inglese.
Seppur subalterna, l'elite indiana aveva posti di comando
nell'amministrazione. Ciò ha senza dubbio favorito lo sviluppo di una
strategia di lotta per l'indipendenza che procedesse per vie interne,
appoggiandosi a forme organizzate di non collaborazione. Gandhi elaborò una
strategia adattata ad un'India troppo povera e inferiore tecnologicamente
per affrontare una guerra guerreggiata. Il ricorso all'imponenza del numero
contro l'esigua minoranza dei colonizzatori doveva permettere la cacciata
del ceto degli amministratori e degli affaristi che gestivano l'impero
coloniale e le sue truppe. La forza del numero aveva margini per incidere
nel negoziato avanzato dall'elite indiana anglofona, espressione d'un
emergente capitalismo autoctono. Il contesto internazionale favorì la
decolonizzazione, sostituita da un nuovo assetto più moderno dell'economia
mondiale. La decolonizzazione inglese, francese, portoghese è un processo
storico che s'avvia dopo la seconda guerra mondiale sotto l'emergere del
nuovo binomio delle potenze mondiali fuoriuscito vincitore dal conflitto:
USA e URSS. Gli inglesi s'eclissano dietro l'emergere del nuovo assetto
dell'imperialismo economico statunitense. Il ruolo giocato dall'Unione
Sovietica, limitrofa e divenuta l'alleato di riferimento dell'India nella
regione, ebbe un peso importante. Il tipo di rivendicazione avanzata, ovvero
l'edificazione nazionale (mal riuscita per altro), contribuì alla
praticabilità della strategia nonviolenta. In effetti, se all'interno delle
forze indipendentiste indiane fosse sorto un movimento d'ispirazione
socialista, capace d'organizzare le masse contadine attorno alla
rivendicazione dell'espropriazione dei latifondi, difficilmente avremmo
ricordato l'epopea indiana come una lotta nonviolenta. E quanto fosse
fragile, e per nulla predittiva, quella strategia, lo dimostrano i tragici
avvenimenti successivi: partiti gli Inglesi scoppiò la guerra civile,
seguita dalla guerra di secessione con i mussulmani (che diede vita al
Pachistan), segnata da massacri religiosi ignominiosi e dall'assassinio
dello stesso Gandhi. La sopravvivenza della società castale è una ulteriore
conferma del fallimento della esperienza nonviolenta, mostratasi incapace
d'edificare quei nuovi rapporti umani e sociali, fondati sulla riconoscenza
dell'altro, ch'essa prefigura e dunque sul superamento d'una società
suddivisa gerarchicamente dalla nascita e compartimentata in modo stagno.
Paradossalmente la nonviolenza sembra aver contribuito, contro i suoi stessi
intenti, ad accrescere quel sentimento d'acquiescenza e di passività che ha
rafforzato la percezione della naturalità delle caste e minato l'opportunità
d'una rivolta mossa dalla difesa della dignità umana.

L'altro esempio è fornito dalla stagione di lotte per i diritti civili negli
USA. Nel caso delle lotte patrocinate dal pastore (anche lui ucciso) Luther
king, vi è il desiderio d'iscriversi in una comunità nazionale riconosciuta
dai rivendicatori (i neri) ma che pertanto li esclude. Insomma l'obiettivo
spiega anche il metodo rivendicativo: pacifista, integrazionista, con una
violazione a bassa intensità della legalità, fatto di possenti episodi
d'insubordinazione sociale di massa, boicottaggio e schermaglia giuridica.
La battaglia si limitava ad abolire l'apartheid per entrare a pieno titolo
nella società ambita, non per cambiarla dalle fondamenta. E forse, la
battaglia per i diritti civili è stato il solo terreno di lotta politica
possibile, in un contesto animato dalla "guerra fredda" esterna che trovava
il suo corrispettivo interno nella guerra civile camuffata contro il
comunismo, che fu il maccartismo. I limiti di questa battaglia, il fatto che
essa sia rimasta incompiuta, sono riconosciuti anche nella letteratura
nonviolenta, che non esita a evocare "il razzismo che imperversa ancora" e
l'assenza di "vittorie rilevanti"7. L'affermazione dell'eguaglianza formale
non ha trovato un suo corrispettivo nell'eguaglianza reale tra le diverse
comunità. Le classi sociali in possesso di un minore capitale economico e
culturale si trovano ancora maggioritariamente nella comunità nera e in
quella ispanica. La battaglia per i diritti civili è servita da volano per
l'ascesa e l'allargamento della società dei consumi alle nuovi classi medie
nere. Negli anni 70, le politiche economiche keynesiane hanno visto
nell'integrazione della comunità nera le potenzialità per un nuovo
allargamento dei consumi interni e dunque della domanda. L'affirmative
action, è stata la traduzione legislativa delle lotte per i diritti civili,
attraverso l'introduzione del principio di discriminazione positiva. In
effetti, delle popolazioni danneggiate storicamente da pratiche sociali,
culturali e istituzionali, discriminatorie e segregazioniste, vedevano
riconosciuto il loro diritto al risarcimento, attraverso delle norme che
introducevano procedure privilegiate, quote prestabilite, trattamenti
specifici, che favorissero la piena integrazione ed il rapido recupero
dell'handicap sociale subito. Questa strategia, abbandonata successivamente
con l'arrivo della reaganomics, permise l'emergere di una classe media nera,
di una nuova borghesia black. Paradossalmente, il gretto spirito comunitario
ha più tardi introdotto la proliferazione delle identità comunitarie,
presunte o reali (occorreva infatti essere riconosciuti come appartenenti ad
una comunità vittimizzata per poter usufruire dei vantaggi dell'affirmative
act), suscitando la rivalità tra comunità svantaggiate. In particolare si è
insediato una sorta d'oligopolio che tende ad escludere le nuove comunità
meno favorite, a non riconoscerle in quanto tali, per evitare di ridurre i
vantaggi dovuti alla posizione di rendita offerta dalle pratiche di
discriminazione positiva. In realtà, I limiti della battaglia per i diritti
civili non sono dovuti alle forme di lotta impiegate ma ai presupposti
teorici che le muovevano, ai limiti politici e culturali, alla gestione
ispirata da gruppi religiosi cristiani, al loro carattere prettamente
morale.

Nel corso degli anni 80 e 90, si sono sviluppate in Europa importanti lotte
per i sans-papiers, attorno ai quali si sono raccolte gran parte delle
famiglie politiche della sinistra, senza che emergessero divisioni sulle
forme di lotta. Anzi, i gruppi più radicali, caratterizzati da una maggiore
propensione alla violenza, si sono distinti tra quelli più accanitamente
conseguenti nelle azioni d'appoggio ai clandestini, ai boicottaggi, alle
occupazioni di luoghi, uffici amministrativi, centri di ritenzione e
aeroporti, dove venivano realizzate le espulsioni (che nel lessico attuale
verrebbero definite di disobbedienza, ma che all'epoca erano ancora
percepite come pratiche tradizionali di lotta sociale). Al contrario, molti
gruppi "nonviolenti" si sono caratterizzati per il fatto di limitare la loro
azione al solo ricorso a procedure legali. Si palesa il dubbio che dietro
l'ideologia della nonviolenza si celi, in realtà e sempre più, il tabù della
legalità.

La nonviolenza attribuita : ovvero l'invenzione del successo della pratica
nonviolenta
Gli esempi storici finora affrontati sono pertinenti. Si può discutere della
loro portata, dei loro risultati effettivi: la vittoria della borghesia
nazionale in India, accompagnata dalla costruzione di una società
ultraviolenta e polarizzata socialmente; o ancora, l'emergenza d'una classe
media nera negli USA che vede i suoi diritti rispettati, contrariamente a
quanto avviene per il resto dei neri e degli ispanici di condizione
proletaria o sottoproletaria. Si può dibattere della portata universale di
queste lotte, ovvero del loro valore paradigmatico, della esportabilità o
meno dei loro metodi oltre che dei loro contenuti (che abbiamo visto essere,
gli uni e gli altri, assai modesti), ma incontestabilmente queste esperienze
appartengono al patrimonio storico e culturale della tradizione che si
definisce pacifista e nonviolenta.

Grossi problemi sopravvengono, invece, quando per dare forza al proprio
discorso la letteratura nonviolenta cerca esempi storici altrove: nella
rivoluzione komeinista che ha cacciato la scia di Persia in Iran, per
esempio, oppure nella recente sconfitta di Slobodan Milosevic in Serbia, o
ancora nella cacciata del dittatore Marcos dalle Filippine, tra gli
zapatisti in Chiapas, con Solidarnosc in Polonia. O ancora quando
addirittura si prova a spiegare l'arrivo al poter dell'ANC in Sud Africa con
una presunta adesione ad una opzione politica nonviolenta, o quando si cita
l'arrivo al potere del populista Chavez in Venezuela. Stranamente però, tra
i diversi eventi evocati c'è un solo episodio che viene sistematicamente
dimenticato: la "rivoluzione dei garofani" del 1975 in Portogallo. Forse
perché quell'evento fu realizzato da militari, da comunisti che avevano
applicato una strategia "entrista" nell'esercito, infiltrandolo,
conquistando gran parte dei suoi quadri intermedi fino a decretare il giorno
dell'insurrezione, del colpo di Stato. Un complotto rivelatosi incruento,
viste le condizioni di decomposizione della società coloniale che
caratterizzava il Portogallo dell'epoca. Non si sparò nemmeno un colpo di
fucile, anzi i soldati sfilarono acclamati dalla popolazione con dei
garofani infilati nelle canne delle loro armi, a dimostrazione che dei
militanti rivoluzionari, dotati di un esercito, armati di una cultura che
disdegna la nonviolenza, possono ritrovarsi vincitori senza bisogno di
sparare un colpo. L'esatto contrario dell'India. A riprova del fatto che la
natura violenta o nonviolenta di un evento dipende meno dalle convinzioni e
dalle intenzioni dei soggetti che s'affrontano che dalle condizioni storiche
che si presentano.

Per evocare in modo pertinente il contributo eventuale fornito dalla
nonviolenza in episodi storici di sollevaione nazionale, lotta per
l'indipendenza o in cambiamenti di regime, occorre quantomeno la compresenza
di due elementi:

1) la presenza d'attori che teorizzino e pratichino in forma magioritaria
questa strategia. Tale circostanza è riscontrabile solo in India e negli Usa
degli anni 60. Nelle altre circostanze citate, non vi è un solo movimento
che abbia giocato un ruolo politico importante, che possa ritenersi
nonviolento. Vi sono forze politiche, gruppi di pressione, blocchi sociali,
partiti religiosi, eserciti guerriglieri, che grazie a contesti particolari
in alcuni casi sono riusciti a conquistare il potere senza il bisogno
d'organizzarsi violentemente (e certo non per edificare una società
nonviolenta), ma usufruendo dell'appoggio o della neutralità di polizia e
forze armate o del sostegno internazionale d'altri Stati ;

2) la realizzazione degli esiti prefigurati dalla strategia nonviolenta,
ovvero la presenza di relazioni sociali nuove, fondate sul riconoscimento
dell'altro, sulla parità e la simmetria reciproca. Insomma, la disparizione
di rapporti sorretti da forme di dominazione e prevaricazione di natura
sociale, economica, politica, sessuale, culturale, religiosa.

In nessuno degli esempi sopra citati si sono presentate queste condizioni.
Per comprendere quanto è avvenuto risulta più utile fare ricorso a concetti
come quello di "implosione" (crollo interno o implosione geopolitica) di di
"moto sociale".

In Iran il regime dello Scia s'è decomposto sotto la spinta complessa di
movimenti di massa interni, nei quali v'erano milizie armate e gruppi che
praticavano attentati. Queste forze percepivano la modernizzazione
autoritaria dello Scia come la cappa plumbea imposta dalla colonizzazione
Occidentale e in particolare dagli USA sulla società. Il tutto è avvenuto in
un tremendo bagno di sangue, con l'avvio immediato della guerra civile tra
islamisti e gruppi della sinistra, poi sconfitti e costretti alle prigioni e
all'esilio. Per non parlare della guerra decennale con l'Irak e degli
effetti iperviolenti sul medio Oriente e sull'Europa dovuti alla diffusione
del fondamentalismo schiita, solo recentemente scavalcato da quello di
scuola walabita legato al fondamentalismo saudita. Milosevic ha perso le
elezioni, non è stato scacciato da gruppi nonviolenti. Anzi, gruppi
paramilitari hanno attaccato il parlamento dandolo alla fiamme nei giorni in
cui il presidente serbo rifiutava di riconoscere il risultato elettorale. La
destra nazionalista, che tanta parte ha avuto nella guerra in Bosnia e in
Kosovo è sempre lì. La neutralità dell'esercito non va confusa con
l'improvviso sbocciare d'una stagione nonviolenta. Le Filippine di Marcos,
divenuto inviso all'establishement USA, sono state il teatro di scontri di
piazza con spargimento di sangue. Assembramenti di popolazione, moti,
manifestazioni e scioperi, insomma un conflitto a media intensità violenta
non è sinonimo della migliore nonviolenza, che per altro nessuno reclamava.
Gli zapatisti sono un esercito armato che il 1 gennaio 1994 ha dato vita ad
una insurrezione con numerosi morti. Marcos porta un passamontagna per
significare il suo status di combattente clandestino e gira armato di M16,
non è il miglior esempio da invocare come icona della nonviolenza.
Solidarnosc era un potentissimo sindacato-partito (finanziato con enormi
risorse dall'Occidente) che raccoglieva nel suo seno la quasi totalità
dell'opposizione al regime socialista polacco. Anche se ha praticato in
prevalenza forme " pacifiche " di lotta, il suo programma politico non era
nonviolento e tantomeno gli obiettivi realizzati (tra cui l'entrata nella
Nato). Nel suo seno v'era di tutto, dagli ultraliberali, ai populisti
cattolici, dai fondamentalisti religiosi, ai gruppi d'estrema destra, ai
monarchici, con tracce persino di qualche " democratico ". L'ANC non ha mai
introdotto nel suo programma la nonviolenza, ha semplicemente rinunciato
alla lotta armata quando, durante l'epoca Gorbacev, si erano create le
condizioni di una trattativa seria che prevedeva la liberazione di Mandela e
l'avvio di un processo di superamento de l'apartheid, cioè quando
l'essenziale del suo programma stava per compiersi. L'abbandono della lotta
armata da parte di alcuni movimenti ha sempre corrisposto ad un passaggio a
forme di lotta politiche di tipo tradizionale, ovvero legale, non certo
nonviolento. È il caso dell'Ira irlandese, che ha rinunciato gradualmente
alle armi quando, attraverso la sua ala legale, è pervenuta ad ottenere
importanti obiettivi politici (e soprattutto si sono ridotti i finanziamenti
della comunità irlandese residente negli Stati Uniti). Chavez è un ex
paracadutista divenuto leader populista negli anni 90 dopo aver essere stato
incarcerato per un tentato golpe. Di fronte alla perdita di credibilità
della classe politica corrotta, ammantato della sua aureola di eroe, ha
vinto le elezioni. Non è un bell'esempio di nonviolenza. Sarebbe come dire
che Berlusconi è un nonviolento perché grazie alle sue televisioni usa
metodi pacifici di persuasione e con questi ha ottenuto il consenso degli
elettori.

Violenza o nonviolenza ? La virtù inesistente del modello unico
Il problema sollevato dal dilemma violenza/nonviolenza sta, in realtà, nel
aver mal posto fin dall'inizio i termini del dibattito tra forme di lotta,
trasformandole da strumenti, quali esse sono, in rivelatori ideologici, in
mezzi intrinsecamente dotati di fini. È questo il rischio inevitabile che si
incorre quando la politica è declinata sulla base di un credo etico, quando
l'azione si risolve in una messa in forma della morale, qualunque essa sia.
In fondo, da questo punto di vista quei pacifisti che a Genova alzavano le
mani in segno di resa davanti alla polizia non sono diversi dai militanti
del black bloc, che devastano sistematicamente dei simboli del capitalismo,
tutto sommato secondari e irrilevanti, senza porsi minimamente l'idea di
comunicare, alleare, allargare il fronte e costruire consenso attorno a se.
Queste due realtà, solo in apparenza opposte, sono l'espressione di una
condotta simettrica dettata dal rapporto puramente etico col proprio agire.
Ne deriva una forma di psicorigidità, un'autoreferenzialità estrema che
mette in avanti la propria purezza, la propria coerenza, una sorta
d'autocompiacimento estetico, l'accordo ossessivamente necessario, e in
ultima analisi il solo che conta sempre, tra mezzi e fini che finisce per
fare del fine un mezzo. La realtà non conta, il contesto storico, l'analisi
dei processi vengono ignorati. La politica è uno specchio in cui rimirare la
propria limpida nettezza. Pretesto per " esprimere semplicemente se stessi "
come fa l'artista nel corso di una performance. Ciò che è veramente decisivo
è il proprio comportamento, la propria perfettibilità etica. È il mondo che
deve modellarsi al proprio credo. Si tratta di una purezza totalitaria,
intollerante, chiusa, ben altra cosa della contaminazione tanto decantata.
La nonviolenza (come l'iperviolenza contro le merci ma non le persone.
Quelli del blocco nero sono in questo altamente etici) da esercizio di virtù
diventa esternazione del vizio, un desiderio di sublime che fa " peccare
d'autocompiacimento ", nutrendo i pacifisti d'una saccente autosufficienza
che li porta a considerarsi " più giusti e virtuosi degli altri " e dunque "
refrattari al dibattito onesto e pragmatico " a tal punto d'accomodarsi in
una " ideologia morale che possa evitar loro un'aperta considerazione delle
alternative ". L'importante è testimoniare, testimoniare se stessi in
pratiche che sempre più si riducono ad " atti ritualizzati, infrazioni
garbate, ad una minimizzazione estrema del rischio"8. In questo senso è
pertinente l'espressione impiegata da Ward Churchill nel suo libro
intitolato: " Pacifismo come patologia " della volontà.

L'errore sta nel pensare che esista un modello unico e virtuoso, assoluto,
di lotta che possa essere valido comunque e dovunque, a seconda delle
latitudini e delle epoche (come pensavano le Brigate Rosse o altre
organizzazioni comuniste combattenti). In questo senso, nonviolenti e
violentisti s'equivalgono. Gorge Lakey ribadisce una ovvietà quando ricorda
che " la violenza non è il marchio della radicalità o del fervore
rivoluzionario perché è usata costantemente per gli scopi più disparati "9.
Infatti, filosofi come Michael Walzer, partigiano della teoria della "
guerra giusta " (Guerres justes et injustes, Belin, Parigi 1999) spostano il
dibattito sul piano della legittimità e dell'illegittimità delle ragioni che
la motivano. Non esiste una forma prefigurativa, un metodo che possa
riassumere in se il fine, il modello di società futura. E se è questa
l'ambizione che riassume la pratica nonviolenta, occorre riconoscere il suo
sistematico fallimento storico. Di contro, è possibile pensare alla
nonviolenza come ad un ulteriore risorsa da poter impiegare in circostanze e
contesti che facciano di questo strumento un'arma opportuna. La scelta delle
forme di lotta è questione complessa e articolata da affrontare secondo i
momenti e le condizioni storiche. La migliore delle strategie è quella
fondata sulla scelta ponderata delle tattiche più opportune ed efficaci a
seconda delle esigenze e dei compiti politici. Senza preclusione alcuna. Ciò
detto, non si può ignorare che sul piano storico l'uso della forza, con il
suo ampio ventaglio di sfumature, dalle più sottili alle più intense, s'è
mostrata sovente una risorsa decisiva. Stati, nazioni, popoli, regimi
produttivi, ordini sociali, sistemi di dominio, rivoluzioni liberatrici, si
sono succeduti e confrontati attraverso scontri il più delle volte senza
mezzi termini. La storia è una immensa valle ricoperta di ossa, scriveva
Hegel. Occorre pensare a dispositivi di riduzione della violenza, a forme
che ne riducano il più possibile il ricorso, che ne attenuino la portata,
che ne canalizzino le forme, ma non si può esulare da un confronto realista
con questo problema.

La proposta nonviolenta e il suo inadeguato contributo alla critica del
potere
Una delle ragioni forti poste a fondamento della scelta nonviolenta è la
rinuncia ad esercitare forme di potere. La nonviolenza più radicale e
integrale, rivendica la sua totale asimmetria rispetto all'esercizio del
potere. Essa non si pretende un contropotere ma, rifiutando ogni forma di
simmetria e concorrenza, si vuole altro dalla logica del potere stesso.
Secondo i suoi sostenitori, attraverso il metodo nonviolento si otterrebbe
con successo il passaggio dal potere esercitato " su " (dominazione), al
potere esercitato " con " (cooperazione con gli altri) oppure al potere "
dall'interno " (forza psicologica e spirituale)10. Ma il ricorso ad un
brillante escamotage sintattico non risolve il dilemma del potere, la natura
della sua origine. Anche un potere che fuoriesce solamente dal l'interno, e
che con altri linguaggi potremmo chiamare fine dell'acquiescenza, termine
della dominazione introiettata, presa di coscienza, emancipazione,
fuoriuscita dall'alienazione, conquista della coscienza per se, assunzione
del principio d'autonomia, non sorge per semplice germinazione spontanea, ma
è frutto d'un incontro con l'esterno, con l'altro da se. E questo processo
di scambio non è esente dal rischio di subire condizionamenti imposti da
forme sublimali di potere: il potere simbolico, il potere carismatico, forme
di legittimazione che captano la volontà ben più del corpo, grazie
all'ineguaglianza economica, alla dissimetria delle competenze e dei saperi,
che stabiliscono differenze e gerarchie. Non è sufficiente sostituire delle
particelle grammaticali per risolvere l'inevitabile momento del contrasto,
della contrapposizione tra poteri diversi. Come evitare di soccombere,
quando un'azione fondata sul potere "dall'interno" o dal potere "con",
incontra nel suo cammino l'ostacolo del potere esercitato "su" e dunque
contro ? Che fare quando il rapporto di forza si fa fisico e chi sta
lottando non vuole semplicemente testimoniare se stesso, ma innanzitutto non
vuole soccombere? " Non collaborare " è la premessa dell'azione, non il suo
esito. Disobbedire è solo il primo passo di un lungo percorso, è ancora un
momento reattivo sprovvisto d'autonomia. Disobbedire non basta.

Nonviolenza o legalitarismo ?

In occidente l'impiego più consistente della nonviolenza è rivendicato dai
cristiani che guardano alle persecuzioni dei loro primi adepti come ad un
momento fondatore della pratica nonviolenta. Il "martirio" di Massimiliano,
il primo obiettore di coscienza, e da loro percepito come un glorioso
esempio. Non abbiamo qui lo spazio sufficiente per indagare la reale
pertinenza della nozione passiva di martirio con quella attiva di
nonviolenza. Certo è che questa sovrapposizione la dice lunga sui sottintesi
culturali che le differenti accezioni della nonviolenza racchiudono. La
concezione sacrificale del martirio, dietro la sofferenza terrena della sua
prova, racchiude una compiaciuta idea di piacere masochista suscitata dalla
prospettiva dal trapasso definitivo nel regno dei cieli. Subire e soffrire,
più che un atto fisico di resistenza umana, è una prova di solidità
religiosa, un atto di fede intimamente sorretto da un segreto piacere
perverso. Anche se la storia della Chiesa come dei movimenti religiosi
riformatori e protestanti, oltre che la testimonianza delle sacre scritture,
della teologia e del diritto canonico, rappresentano delle fonti ambivalenti
per la tradizione nonviolenta, l'intreccio tra ideologia e pratiche
nonviolente con la cultura religiosa resta un fatto avverato. Lo è a tal
punto che la distinzione introdotta da Lutero tra la violenza individuale,
da condannare, e quella statale o collettiva, da accettare per l'interesse
della comunità, resta a tutt'oggi il vero nucleo concettuale che ispira
l'essenza della cultura nonviolenta. Ovvero un'ideologia che doma
l'autonomia degli individui, li priva del loro libero arbitrio
sottomettendoli alla legge del monopolio statale.

A origini illustri e lontane l'atteggiamento di molta parte dei nonviolenti
italiani, i quali piuttosto che rivolgere il loro impegno verso la
delegittimazione di quei poteri forti che possono avvalersi della protezione
e dell'esercizio della violenza legittima, privilegiano lo zelo
discriminatorio nei confronti di chi, lottando contro quei poteri, ricorre a
strategie diverse. In effetti, troppo spesso in Italia viene chiamata
nonviolenza un tipo di cultura politica che si è costruita sul rifiuto della
violenza politica dei movimenti sociali sovversivi degli anni 70. Il rigetto
della violenza contro il potere, violenza venuta dal basso, ha segnato
questa cultura addomesticata sbilanciandola verso un atteggiamento fin
troppo compiacente con le istituzioni, titolari di quella violenza legittima
esercitata dall'alto. In questo modo s'è radicata l'idea che legalità e la
nonviolenza fossero, in fondo, la stessa cosa o comunque ch'esse si
trovassero dalla stessa parte dello schieramento. Un malizioso malinteso che
ha fatto della nonviolenza e del pacifismo un comportamento subalterno,
domesticato, fondamentalmente acquiescente all'ordine costituito.

È questo il grande "malinteso" che egemonizza la nonviolenza italiana e che
fa di molti pacifisti dei pacificati o dei pacificatori. Spetta ai militanti
più sinceri e autentici di questa corrente risolverlo.


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1. Le Courrier d'information, n. 246, Martedi 19 giugno 2001.
2. Un isterico Vittorio Agnoletto e un fin troppo incauto Fausto Bertinotti.
3. Cf. Gandhi, la sagesse de la non-violence, Jean-Marie Muller, Desclée de
Brouwer, Parigi 1994.
4. George Lakey, La Spada che guarisce: una difesa attiva della nonviolenza,
in www.lostraniero.net, p. 2. Si tratta di un testo scritto in risposta ad
un volume di Ward Churcill, Pacifismo come patologia: Riflessioni sul ruolo
della lotta armata nel Nord America.
5. Ibidem, p. 4.
6. Ibidem, p. 4.
7. Ibidem, p. 2.
8. Ibidem, p. 2.
9. Ibidem, p. 16.
10. Ibidem, p. 18.

http://www.geocities.com/comunautilus/