Autore: Lecce Social Forum Data: Oggetto: [Lecce-sf] I: Lettera di Sofri a Strada
Riceviamo da De Santis Francesco franzdesa5@??? e inoltro in lista
----- Original Message -----
From: De Santis Francesco
To: iserpa@???
Sent: Wednesday, October 16, 2002 4:10 PM
Subject: DA ADRIANO SOFRI A GINO STRADA
CARO Gino Strada, voglio litigare con te, di brutto.
Sarebbe meglio farlo di persona, nel Panshir, magari a Pinerolo: peccato. Ma
tu sarai così generoso da litigare senza scrupoli, come se fossimo tutti e
due a piede libero, in un autogrill. Comincerò con l'elogio dello sminatore,
che in questo momento storico è il mio eroe. Ne ho appena visto uno in tv,
militare di professione, ora smina da volontario coi miei amici di InterSos
in Afghanistan. Ne conobbi altri. Una giovane donna, in Bosnia - là si
chiama diverzant, lo sminatore - mutilata, temeraria. Voleva salvare vite,
dicevano di lei che volesse morire. Ho sentito dire di campioni dello
sminamento, che erano stati in passato collocatori di mine: gente che
tornava sui suoi passi, come dovrebbe fare l'umanità intera. Fin qui siamo
d'accordo, anzi, tante cose le ho imparate da te. Ora lo sminatore - la
sminatrice volontaria - è dunque il mio eroe: tuttavia bisogna che qualcuno
si occupi della questione generale, di mettere al bando le mine, la
produzione, lo smercio, l'impiego eccetera.
Proprio tu ti impegnasti in questa campagna generale. Si striscia a
disinnescare o a far brillare una mina dietro l'altra, per milioni e milioni
di mine; si cura un mutilato dopo l'altro, si fabbrica una protesi su misura
dietro l'altra - ma bisogna pure provare a interrompere, almeno a ridurre,
la guerra, posatrice di mine e avida di mutilazioni. Tu curi la gente, e
quanto alla questione generale, la guerra, che aborrisci, ti affidi
all'educazione alla pace. Fra la mirabile cura chirurgica delle vittime di
ogni colore, e un'umanità ricreata dall'educazione alla pace, c'è, a esser
molto ottimisti, un enorme intervallo. È su questo intervallo che voglio
litigare.
Nella guerra, le guerre, afgane, più lunghe di quella di Troia, tu curavi la
gente: ti chiedevi chi e come potesse far finire la guerra? (Non è una
domanda retorica: non lo so davvero. Non lo ricavo neanche dal tuo bel
libro: "Buskashi"). Non era certo affar tuo; forse credi che nessuno possa
far niente per far finire le guerre, e che si possa solo curare, operare,
sminare. Il problema nasce quando qualcuno prova a far finire la guerra. In
Afghanistan non ci ha provato nessuno, a lungo: l'hanno combattuta ed
eccitata, ognuno dalla sua parte, ogni potenza dalla sua parte, finché una
specie di stallo ha consegnato gran parte del paese al truce fanatismo
Taliban. Stato-non Stato, tirannide brutale contro donne e bambini,
territorio infeudato a un'Internazionale del terrore.
Bisognava o no che qualcuno si ponesse il problema di metter fine alla
tirannia dei Taliban? Di strappare la frusta dalle mani degli squadristi?
Prima dell'11 settembre, anni prima, io battevo le mani al lavoro afgano tuo
e dei tuoi, e del dottor Cairo, e pensavo che la comunità internazionale
dovesse intervenire a riportare le condizioni minime della convivenza civile
in quel paese. Non sapevo come; condivisi l'illusione che Shah Massoud fosse
il leader da sostenere. Massoud venne in Europa a chiedere aiuto, ignorato.
Non era l'eroe senza macchia, benché fosse un eroe. Pensavo che la
condizione delle donne equivalesse a uno smisurato campo di concentramento e
di torture. Che si fosse nel caso in cui guerra e oppressione non sono state
prevenute, e c'è bisogno urgente di soccorso. È così nella cura per la
salute e la medicina, no? C'è un'educazione alla salute, c'è una medicina
preventiva, c'è, quando si sia a quel punto, il ricorso alla chirurgia. Le
persone possono trovarvisi, che abbiano gozzovigliato o seguito una dieta
salutista, che si siano educate alla prevenzione o che abbiano creduto
all'omeopatia: e però ormai devono affidarsi al chirurgo. E i paesi, i
popoli? Nel tuo Afghanistan non successe niente.
Non gliene fregava niente a quasi nessuno. Poi c'è stato il 9 settembre,
l'assassinio di Massoud, e poi l'11 settembre. L'amministrazione americana -
e la coalizione adunata attorno a lei col mandato dell'Onu - ha additato in
Al Qaeda (che l'ha rivendicato) l'autrice dell'assalto a Manhattan e a
Washington, ha preteso la consegna di Bin Laden, è intervenuta militarmente
contro l'Afghanistan del mullah Omar. Ogni volta che si ricorre alla forza,
tu dici, le vittime sono i civili innocenti. Ma in Afghanistan da anni e
anni i civili innocenti erano vittime di guerre. Tu lo sapevi meglio di
chiunque: li ricoveravi, li operavi. Nell'Afghanistan del dopo 11 settembre,
non-Stato escluso dall'Onu, infeudato ad Al Qaeda, bisognava intervenire?
Bisognava impegnare le proprie energie perché il modo di intervenire fosse
il più rispettoso della vita e della dignità umana, o opporglisi comunque
come a un'infamia bellicista?
Credo questo: si può fare obiezione a qualunque decisione che, anche col
proposito di salvare vite umane in numero ingente, sacrifichi la vita di
innocenti, fosse pure un solo innocente. Questa obiezione di coscienza può
segnare insuperabilmente il convincimento morale di un singolo individuo.
Non quello di un responsabile pubblico, un militare o uno statista. Un
responsabile pubblico misura relativamente la sua morale, che, per essere
relativa, non è meno rigorosa. Non si illude di escludere in assoluto il
sacrificio di vittime innocenti, ma vuole ridurne al minimo il rischio. Non
ammazza né tortura prigionieri, anche i più colpevoli. Rifiuta, in
Palestina, di far esplodere una vettura sulla quale, con un pericoloso capo
terrorista, viaggiano persone innocenti, e dei bambini. Non ammette che, in
nome del pericolo probabile ma futuro, si sacrifichino oggi degli innocenti.
Apprezza l'incolumità della gente del "nemico" come quella della propria
gente.
Questo era il problema imposto dall'intervento in Afghanistan, e in
qualunque altro luogo del mondo. Opporsi in assoluto a ogni ricorso
internazionale alla forza equivale esattamente a negare l'esistenza di una
polizia entro i confini di uno Stato. Solo il pregiudizio, e l'abitudine,
impediscono ancora di vederlo.
L'intervento in Afghanistan è avvenuto. È costato lutti evitabili e delitti
cercati, ai civili e ai combattenti. Ti domando: i civili colpiti oggi in
Afghanistan sono più numerosi o molto meno? Gli arti mutilati sono più o
meno? Le mine collocate sono più o meno? Si mettono nuove mine o si smina?
Le frustate alle donne sono più o meno?
È vero, secondo una quantità di fonti attendibili, che la maggioranza delle
donne indossa ancora il burqa. A Herat, è stato ripristinato l'obbligo. A
Kandahar, lo portano pressoché tutte. A Kabul sono numerose quelle che se ne
sono sbarazzate. Ti domando: quelle che possono scegliere di non indossarlo
sono molte di più o no? Tu sei arrivato a dire che le uniche donne senza
burqa sono pagate dai fotografi occidentali! Affermazione enorme, se fosse
vera, e degna di verifica. Intuisco quanto ti stia a cuore quel paese. Ma
allora: perché la - precaria, difettosa, mediocre - liberazione di Kabul non
viene festeggiata con le lacrime agli occhi da te e da tutti noi? Perché
nelle cose che dici e nell'espressione del tuo viso, al contrario, sembra di
leggere un rammarico? Un rimpianto per la Kabul com'era? Perché il ritorno
di due milioni e passa di profughi in Afghanistan non viene salutato con le
lacrime agli occhi?
Non smetto di chiedere perché i convinti pacifisti che non mossero un dito
per liberare Sarajevo dall'assedio (il più lungo della storia moderna, più
che a Leningrado) e dallo stillicidio delle bombe e dei cecchini, e anzi
proclamarono la loro opposizione attiva a un intervento militare
internazionale che sbloccasse l'assedio, e profetizzarono lo scoppio della
Terza Guerra Mondiale, quando quell'intervento avvenne, con gli aerei della
Nato, e in pochi giorni, e senza vittime innocenti, sbloccò l'assedio e
liberò Sarajevo, non festeggiarono con le lacrime agli occhi? Non era la
pace, si sapeva, lo sapevo: era solo (solo!) la fine del massacro
quotidiano. L'interruzione del massacro, vegliata, ancora oggi, dalla
polizia internazionale. Sono innumerevoli i posti della terra in cui si può
pregare per la pace, ma per interrompere i massacri occorre mettere in campo
una forza armata internazionale, e tenercela. E magari farle patrocinare
libere elezioni, come a Timor est.
Sono contrario alla guerra minacciata contro l'Iraq e alla sua filosofia, e
spaventato dalla sua ignota modalità. Ma mi sembra pazzesca l'assimilazione
fra Saddam Hussein e Bush, che tu proclami a muso duro. Pazzesca
l'indifferenza alla democrazia, per formale e imperfetta e violata che sia.
Alla distanza fra governi eletti a suffragio universale e sanguinarie
dittature assirobabilonesi. So darmene solo una, ma inadeguatissima,
spiegazione. Io credo che la - brutta, difettosa, violata - democrazia debba
essere la condizione della convivenza civile in ogni parte del globo.
Tu forse pensi - come certi etnologi relativisti che non sono ancora tornati
a casa, come i leader cinesi, come i capi tribali patriarcali, come i fedeli
della sharia - che la democrazia sia il pregio o il tic di un pezzetto di
mondo, e sia fuori posto e disadatta a tanta altra parte del globo. Non
riesco a capacitarmene, e mi spaventa. Mi spaventano le persone che mi sono
care, note e ignote, che ripetono generosamente di essere sempre e comunque
contro l'impiego della forza. Si sono dimenticate di Auschwitz, e non hanno
voluto imparare dov'è Srebrenica, e che cosa è successo, e quando.