[Cerchio] Per un mondo senza morale 2

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Il crimine

«Che la storia non abbia alcun senso, ecco di cosa ci rallegriamo. Ci
tormentiamo per una soluzione felice del divenire, per una festa finale di
cui solo le nostre fatiche e i nostri disastri faranno le spese? Per dei
futuri idioti saltellanti sulle nostre ceneri? La visione di un compimento
paradisiaco oltrepassa, nella sua assurdità, le peggiori divagazioni dello
spirito. Tutto ciò che sarà addotto a pretesto, a giustificazione dei Tempi,
è che si trovi qualche momento più proficuo di altri, accidenti senza
conseguenze nell'intollerabile monotonia delle perplessità.» (E.M. Cioran,
Précis de décomposition)

Il comunismo non è un compimento paradisiaco.

Innanzitutto, identificare il comunismo in un paradiso permette di accettare
tutto nell'attesa. In caso di rivoluzione sociale, si ammetterà di non
cambiare da cima a fondo la società: una società senza Stato né prigione, d'
accordo, però più tardi... quando gli uomini saranno perfetti. Fino ad
allora, tutto si giustifica: Stato operaio, prigioni del popolo ecc., poiché
il comunismo non si confarebbe che a un'umanità di dèi.

C'è poi una visione tranquillizzante della società desiderabile che toglie
la voglia di desiderarla. Ogni comunità quali che siano le sue dimensioni,
impone ai suoi membri di rinunciare a una parte di loro stessi e, se si
intendono come desideri positivi, quelli la cui realizzazione non
comprometterebbe la libertà degli altri, ogni comunità costringe ciascuno a
lasciare insoddisfatti alcuni dei suoi desideri positivi. Per la semplice e
buona ragione che questi desideri non sono per forza condivisibili da uno o
altri membri. Ciò che rende sopportabile una tale situazione, è la certezza
che, per chiunque giudichi che queste rinuncie minino l'integrità stessa
della persona, rimarebbe la possibilità di ritirarsi, il che non accadrebbe
senza sofferenza. Ma il rischio della sofferenza e della morte non è
indispensabile alla pienezza del senso della vita?

Che l'umanità, giocando con le leggi della materia, rischi di annientarsi, e
con essa ogni vita sul pianeta, non è ciò che ci tormenta. L'insopportabile,
è che lo faccia nell'incoscienza assoluta e, per così dire, suo malgrado,
poiché ha creato il capitale che le impone le sue proprie leggi inumane. È
tuttavia vero che da quando l'uomo ha cominciato a modificare il suo
ambiente, lo ha fatto a rischio di distruggerlo e di distruggersi, e che
questo rischio sussisterà senza dubbio, quali che siano le forme di
organizzazione sociale. Si potrebbe ugualmente concepire un'umanità che,
dopo aver dapprima combattuto, poi addomesticato e amato l'universo, decida
di scomparire, di ritornare al grembo della natura sotto forma di polvere.
In ogni caso, non vi è umanità senza rischio, poiché non vi è umanità senza
l'altro. Lo si verifica bene nel gioco delle passioni.

Se non facciamo molta fatica a immaginare che una società meno rigida sarà
in grado di dare alle donne e agli uomini (agli uomini condannati dopo
rivoluzione borghese a portare solo abiti da lavoro!) l'occasione di essere
più belli, di praticare dei rapporti di seduzione al tempo stesso più
semplici e più raffinati, non possiamo comunque impedirci di sbadigliare all
'evocazione di un mondo nel quale tutti piaceranno a tutti, dove si potrà
baciare come ci si stringe la mano, senza che ciò impegni ad alcunché (è
proprio questo il mondo che ci promette la liberalizzazione dei costumi).
Karl continuerà dunque, con tutta probabilità, a piacere a Jenny più di
Friedrich. Ma sarebbe come credere ai miracoli immaginare che non accadrà
mai che Friedrich provi desiderio per Jenny senza che lei lo corrisponda. Il
comunismo non garantisce affatto la concordanza di tutti i desideri. E la
tragedia reale del desiderio non corrisposto parrebbe il prezzo insuperabile
da pagare perché il gioco della seduzione resti appassionante. Non in virtù
del principio del vecchio stupido detto «ciò che si ottiene senza pena non
ha valore», ma perché il desiderio include l'alterità dell'altro e dunque,
la sua possibile negazione. Niente gioco sociale e umano senza posta in
gioco e senza rischio! Ecco l'unica norma che sembra insuperabile. A meno
che la nostra immaginazione scimmiesca, che resta dipendente dal vecchio
mondo, ci impedisca di comprendere l'uomo.

Ciò che rende Fourier meno noioso della maggior parte degli altri utopisti è
che, oltre a un inventario molto poetico e molto intenso dei possibili, il
suo sistema integra la necessità dei conflitti. Noi sappiamo che la quasi
totalità dei casi considerati crimini o delitti dal vecchio mondo non sono
che cambiamenti bruschi di proprietario (il furto), incidenti della
concorrenza (l'omicidio di un cassiere di banca) o il prodotto della miseria
dei costumi. Ma, in un mondo senza Stato, non è inimmaginabile che l'
esacerbazione delle passioni possa condurre un uomo a far soffrire o a
uccidere un altro uomo. In un tale mondo, la sola garanzia che un uomo non
ne torturi un altro, dipenderà dal fatto che egli non ne provi il bisogno.
Ma se lo prova? Se torturare lo diverte? Sbarazzati delle vecchie
rappresentazioni del tipo occhio per occhio, dente per dente, prezzo del
sangue ecc., una donna il cui amante sia stato ucciso, un uomo la cui amata
torturata, giudicheranno, malgrado la loro rabbia, certo stupido uccidere
qualcuno, vederlo rinchiuso, per compensare fantasmaticamente la perdita
subita - forse... Ma se il desiderio di vendetta prevale? E se l'altro
continua a uccidere?

Nel movimento operaio, gli anarchici sono senza dubbio tra i pochi a essersi
posti concretamente il problema di una vita sociale senza Stato. La risposta
di Bakunin non è davvero convincente: «Abolizione assoluta di tutte le pene
degradanti e crudeli, delle punizioni corporali e della pena di morte, in
quanto consacrate ed eseguite dalla legge. Abolizione di tutte le pene a
termine indefinito o troppo lunghe che non lasciano alcuna possibilità di
riabilitazione: il crimine dovrebbe essere considerato come una malattia
eccetera». Parebbe di leggere il programma del Partito Socialista quando non
era ancora al potere. Ma il seguito è più interessante: «Ogni individuo,
condannato dalla legge di una qualsiasi società - comune, provincia o
nazione - conserverà il diritto di non sottomettersi affatto alla pena che
gli sarà stata imposta, dichiarando che non vuole più far parte di questa
società. Ma, in questo caso, quest'ultima avrà a sua volta il diritto di
espellerlo dal suo grembo e di dichiararlo al di fuori della sua garanzia e
della sua protezione. Ricaduto così sotto la legge naturale occhio per
occhio, dente per dente, almeno sul territorio occupato da questa società,
il refrattario potrà essere derubato, maltrattato, anche ucciso senza alcuna
preoccupazione. Ciascuno potrà liberarsene come di una bestia malefica, mai
però asservirlo né impiegarlo come schiavo» (5).

Questa soluzione ricorda l'atteggiamento dei primitivi: l'individuo che ha
infranto un tabù non è mai più preso sul serio, si ride ogni volta che apre
bocca, oppure deve partire per la giungla, o diventa invisibile ecc. In
tutti i casi, espulso dalla comunità, è votato a una morte prossima.

Se si tratta di distruggere le prigioni per ricostruirle più ariose e un po'
meno rigide, che non si conti su di noi. Saremo sempre a fianco del
refrattario. Poiché, cos'è una pena «troppo lunga»? Non è necessario esserci
marciti dentro per sapere che in prigione il tempo è, per definizione,
sempre troppo lungo. Ma se si tratta di rimpiazzare la galera con un
allontanamento ancora più radicale, che non si conti maggiormente su di noi.
Quanto a trattare il crimine come una malattia, è questa la porta aperta al
totalitarismo del neurolettico o del discorso psichiatrico.

«È curioso constatare che basta perdere la propria «serietà» (nella qual
cosa un uomo non invecchiato anzitempo potrebbe rivaleggiare con il più
terribile dei bambini) per trovare simpatici i più infimi briganti. L'ordine
sociale tenderebbe a una risata? [...] La vita non è una risata, affermano,
non senza la più comica gravità, gli educatori e le madri di famiglia ai
bambini stupiti [...]. Io immagino tuttavia che nello sfortunato cervello
oscurato da questo misterioso ammaestramento, un paradiso ancora rutilante
cominci con un formidabile rumore di stoviglie rotte [...] il piacere senza
freno dispone di tutti i prodotti del mondo, tutti gli oggetti gettati in
aria sono da rompere come dei giocattoli» (6).

Che fare dei distruttori di stoviglie? Oggi, è impossibile rispondere a
questa domanda, e ugualmente non è sicuro che in una società senza Stato vi
si trovi una risposta soddisfacente. L'uomo che rifiuta il gioco, che rompe
le stoviglie, che è pronto a correre il rischio di soffrire, persino a
morire, per il semplice gusto di rompere il legame sociale, tale è il
rischio senza dubbio insuperabile al quale va incontro una società che
rifiuti d'espellere dal grembo dell'umanità chicchessia, per quanto
asociale. I danni che la società dovrà subire saranno sempre meno grandi di
quelli ai quali si esporrebbe facendo dell'asociale un mostro. Per salvare
qualche vita, per quanto «innocente», non bisogna che il comunismo perda la
sua ragion d'essere. Constatiamo che fino a oggi le mediazioni concepite per
evitare o addolcire i conflitti e mantenere l'ordine interno alla società
hanno provocato un'oppressione e delle perdite umane infinitamente più
grandi di quelle che si riteneva avrebbero impedito o limitato. Nel
comunismo, nessuno Stato alternativo, nessun «non-Stato», che sarebbe ancora
uno Stato.

«La repressione delle reazioni antisociali è oltre che chimerica
inaccetabile come principio» (7).

La questione non è soltanto importante per un lontano avvenire. È anche una
posta in gioco in un periodo di turbamenti sociali. Pensiamo alla sorte
riservata ai saccheggiatori e ai ladri durante le sommosse del xix secolo,
all'ordine morale che queste sommosse riproducevano al loro interno.
Ugualmente, nella Russia dei primi tempi della rivoluzione, a un formidabile
movimento di trasformazione dei costumi, si è giustapposto un «Codice
matrimoniale bolscevico», di cui il solo titolo è tutto un programma. Ogni p
eriodo più o meno rivoluzionario porterà alla nascita di gruppi, a metà
strada tra la sovversione sociale e la delinquenza, a temporanee
ineguaglianze, ad accaparratori, a profittatori e, soprattutto, a tutta una
gamma di condotte sfumate che sarà difficile qualificare come
«rivoluzionarie», «di sopravvivenza», «controrivoluzionarie» ecc. La
comunizzazione progressiva risolverà queste questioni ma in una, due
generazioni, forse più. Fino ad allora, occorrerà prendere delle misure, non
nel senso di un «ritorno all'ordine», che sarà uno degli slogan chiave di
tutti gli antirivoluzionari, ma sviluppando ciò che costituisce l'
originalità del movimento comunista: essenzialmente, esso non reprime,
sovverte.

Questo significa innanzitutto che utilizza solo la quantità di violenza
strettamente necessaria per raggiungere i suoi scopi, non per moralismo o
non-violenza ma perché tutta la violenza superflua si autonomizza e diviene
un fine a sé. Ciò implica quindi che la sua arma è innanzitutto e in primo
luogo la trasformazione dei rapporti sociali e la produzione delle
condizioni di esistenza. I saccheggi spontanei cessanno d'essere un
cambiamento di massa di proprietari, una semplice giustapposizione di
appropriazioni privative, se si costituisce una comunità di lotta tra i
saccheggiatori e i produttori. A questa condizione solamente, il saccheggio
può essere il punto di partenza di una riappropriazione sociale delle
ricchezze e di una loro utilizzazione in una prospettiva più ampia del puro
e semplice consumo (il quale non è in sé condannabile, non essendo la vita
sociale che attività produttiva, quindi anche consumo e consumazione, e se i
poveri vogliono procurarsi dapprima qualche piacere, chi altri oltre ai
preti penserà a rimproverarli?). Quanto agli accapparratori, se saranno
necessarie talvolta delle misure violente, sarà per recuperare i beni e non
per punire. In tutti i casi, è solo estendendo il regno della gratuità che
si toglierà loro di fatto ogni possibilità di nuocere. Se il denaro non è
che carta, se non si può più convertire in denaro ciò che si accaparra, a
che fine accapparrare?

Più una rivoluzione si radicalizza, e meno ha bisogno di essere repressiva:
noi l'affermiamo tanto più volentieri in quanto per il comunismo, la vita
umana, come sopravvivenza biologica, non è il valore supremo. È il
capitalismo che ci impone questo mostruoso imbroglio: la sicurezza di una
sopravvivenza massima in cambio di una sottomissione massima all'economia.
Eppure, un mondo in cui ci si deve nascondere per sciegliere l'ora della
propria morte non è radicalmente devalorizzato?

Nel comunismo, non si parte dai valori che ci si dà, ma dai rapporti reali
nei quali si vive. Ogni gruppo pratica, rifiuta, ammette, impone certi atti
e non altri. Prima di avere dei valori, e per averli, ci sono delle cose che
si fanno o non si fanno, si impongono o si vietano.

Nelle società contraddittorie e classiste, l'interdetto è fissato e, al
contempo, fatto per essere aggirato o violato. I divieti delle società
primitive e in una certa misura, delle società tradizionali, non
costituiscono, propriamente parlando, una morale. Valori e divieti vi sono
riprodotti in ogni istante attraverso ogni atto della vita sociale. Quando
lavoro e vita privata si oppongono sempre più radicalmente, allora s'impone
la questione dei costumi, che diviene lancinante nel xix secolo in Europa
con lo sviluppo di ciò che i borghesi chiamavano le classi pericolose.
Bisogna contemporaneamente che l'operaio sia reputato libero di andare al
lavoro (per giustificare la libertà del capitalista di rifiutarglielo), e
che la morale lo mantenga in buone condizioni spiegandogli che egli non deve
spassarsela e che il lavoro è la sua dignità. Non c'è morale se non perché
vi sono dei costumi, cioè un dominio che la società lascia teoricamente a
disposizione dell'individuo, ma che allo stesso tempo si impegna a
legiferare dall'esterno.

La legge (religiosa, poi statale) presuppone lo scarto. Qui è la differenza
con il comunismo dove non si ha bisogno di legge intangibile che ciascuno sa
non verrà rispettata. Nessun assoluto, se non forse la priorità della
specie - che non significa la sua sopravvivenza. Nessuna regola falsamente
universale. Ogni morale razionalizza a posteriori, come il diritto, l'
ideologia. Essa si vuole e si dice sempre fondamento della vita sociale; nel
mentre si vuole essa stessa senza fondamento, dal momento che poggia solo su
Dio, sulla natura, sulla logica, sul bene sociale... cioè un fondamento
inesistente poiché non si può rimetterlo in discussione. Le regole che si
daranno (in un modo che non possiamo prevedere) gli esseri umani nel
comunismo deriveranno dalla socialità comunista. Esse non costituiranno una
morale in quanto non pretenderanno una illusoria universalità nel tempo e
nello spazio. Le regole del gioco comprenderanno la possibilità di giocare
con le regole.

«La rivolta è una forma di ottimismo appena meno ripugnante dell'ottimismo
corrente. La rivolta, per essere possibile, presuppone che si prenda in
considerazione la possibilità di reagire, cioè che vi sia un ordine di cose
preferibile e al quale bisogni tendere. La rivolta stessa, considerata come
un fine, è ottimista, significa considerare il cambiamento, il disordine
come qualche cosa di soddisfacente. Non posso credere che ci sia qualcosa di
soddisfacente. [...]

Domanda: - Secondo voi, il suicidio è un ripiego?

- Esattamente, è un ripiego antipatico quasi quanto un mestiere o una
morale» (8).

Tutta una letteratura nichilista ha sviluppato il punto di vista del
«distruttore di stoviglie», del refrattario a ogni legame sociale, con il
gusto della morte come corollario obbligato. Ma la bella musica dei
pensatori nichilisti non ha impedito alla maggior parte di essi di perdersi
nei rumori della vita quotidiana fino a un'età rispettabile. Incoerenza che
conforta l'idea che il refrattario assoluto sia soltanto un mito letterario.
Quanto ai rari individui che come Rigaut scelsero il ripiego del suicidio, o
come Genet gustarono davvero l'abiezione, essi vissero questo mito come una
passione. Ma che senza dubbio siano esistiti dei mistici sinceri non prova
in nessun modo l'esistenza di Dio. Questi «refrattari» nutrono un elitismo
che è fin dall'inizio una posizione falsa. Il fatto più grave non è che si
credano superiori, ma che si pensino come differenti dal resto dell'umanità.
Si vogliono osservatori di un mondo dal quale sarebbero in disparte, mentre
si può comprendere solo ciò a cui si partecipa. L'esteriorità si crede
lucida, invece cade nella peggiore trappola; è Bataille che lo dice:

«[...] Io non ho mai potuto guardare l'esistenza con il dispregio distratto
dell'uomo solo» (9).

«Poiché è l'agitazione umana, con tutta la volgarità dei piccoli e dei
grandi bisogni, con il suo disgusto aperto per la polizia che la soffoca, l'
agitazione di tutti gli uomini (esclusa questa polizia e gli amici di questa
polizia), che sola condiziona le forme mentali rivoluzionarie, in
opposizione alle forme mentali borghesi» (10).

Il mito del refrattario ha talvolta ingombrato la teoria rivoluzionaria:
vedere la fascinazione dei situazionisti per i fuorilegge in generale e per
Lacenaire in particolare, fascinazione portata al suo culmine nell'
affliggente ultimo film di Debord. Ma se questo mito deve essere criticato,
è anche perché si limita a contraddire e tende dunque a corroborare la
produzione di mostri fascinanti da parte delle società di classe.

Su questo oceano di zombi nel quale siamo immersi, corre talvolta un brivido
di passione, quando si dà in pasto ai cittadini un essere radicalmente
estraneo, qualcosa che ha la forma di un uomo ma al quale si nega ogni
umanità reale. Per il nazi, era l'ebreo, per l'antifascista, è il nazi. Per
le folle contemporanee, sono i terroristi, i malviventi o gli assassini di
bambini. Allorché si tratta di braccare questi mostri e di determinarne il
castigo, le passioni infine risorgono e le fantasie che si credevano sopite
galoppano. Peccato che questo tipo d'immaginazione e le sue raffinatezze
siano proprio quelle che si attribuiscono al mostro garantito non umano: il
carnefice nazista.

Non si sono potuti costringere tutti a rispettare una legge in
contraddizione con il funzionamento reale dei rapporti sociali. Non si è
potuto impedire l'omicido quando c'erano motivi per uccidere. Non si è
potuto prevenire il furto quando c'erano delle ineguaglianze e che il
commercio si fondasse sul furto. Allora, si esemplifica concentrandosi su di
un caso. Di più: si esorcizza la parte di sé che avrebbe anche voluto essere
il carnefice di quei corpi senza difesa o l'assassino-violatore di questi
bambini. La parte d'invidia nel grido di odio della folla non ha bisogno di
essere messa in evidenza. Salta agli occhi, persino a quegli occhi fatti per
non vedere, quelli dei giornalisti.

Al contrario, il comunismo è una società senza mostro. Senza mostro, perché
ciascuno infine nei desideri e negli atti degli altri riconoscerà
altrettanto delle figure possibili dei propri desideri e del proprio essere
uomo. «L'essere umano è la vera Gemeinwesen dell'uomo» (Karl Marx): le
parole Gemeinwesen o essere collettivo esprimono il nostro movimento molto
meglio della parola comunismo, che non si associa di primo acchito se non a
una messa in comune delle cose. La frase di Marx merita molti sviluppi e noi
vi torneremo. Per ora accontentiamoci di vedere in questa frase la critica
dell'umanismo borghese. Mentre l'uomo onesto di Montaigne può essere tutti
gli uomini, grazie alla mediazione della cultura, l'uomo comunista sa, per
pratica, di poter esistere com'è solo perché tutti gli altri esistono come
sono.

Ciò non significa per nulla che nessun desiderio debba essere represso.
Repressione e sublimazione impediscono di cadere nel rifiuto dell'alterità.
Ma il comunismo è una società senz'altra garanzia che il libero gioco delle
passioni e dei bisogni, mentre la società capitalista è presa dal delirio
della sicurezza che essa vorrebbe garantire contro tutti i rischi della
vita, ivi compresa la morte. Tutti i pericoli e i rischi possibili
dovrebbero essere «coperti dall'assicurazione», al di fuori dei «casi di
forza maggiore» - guerra e rivoluzione - e ancora... Il solo avvenimento
contro il quale il capitalismo non può fornire un'assicurazione, è la sua
propria scomparsa.

Quando si ha la pretesa di una critica globale del mondo, non si saprà
accettare che la critica si limiti alla teoria pura. Ci sono periodi nei
quali l'attività sovversiva si riduce quasi interamente alla redazione di
testi o a scambi di punti vista tra individui. È dentro questo «quasi» che
si spiega il nostro disagio: per continuare a gettare uno sguardo lucido sul
mondo, occorre essere abitati da una tensione che non è facile da
affrontare, poiché implica rifiuto, una certa marginalizzazione, una grande
sterilità. Questo rifiuto, questa marginalizzazione e questa sterilità
contribuiscono a mantenere la passione tanto quanto tendono a irrigidirla in
acidità misantropica o in mania intellettuale. Colui che rifiuta l'
organizzazione del mondo da parte del capitale non considera alcuno degli
atti di cui è intessuta la vita sociale come scontato. Le stesse
manifestazioni del dato biologico non sono al riparo dal suo tormento!
Accettare di procreare gli parrà sospetto - come voler partorire in un mondo
simile, dal momento che non si vuole ponderare una possibilità di cambiarlo?

Tuttavia, al di là di qualche semplice principio - non partecipare alle
imprese di mistificazione o di repressione (né sbirri, né divi), non far
carriera -, non si può pretendere di fissare in modo preciso e definitivo le
forme del rifiuto. Per la critica radicale, non ci sono costumi buoni, ve ne
sono semplicemente di peggiori di altri e vi sono certi comportamenti che
mutano la teoria in derisione. Volersi rivoluzionario in un periodo non
rivoluzionario... Ciò che conta non sono tanto i risultati di questa
contraddizione, forzatamente parcellari e mutilanti, quanto la
contraddizione stessa e la tensione del rifiuto.

A che pro criticare la miseria dei costumi se deve permanere? Il nostro modo
di essere non ha senso se non in rapporto al comunismo. Perché alla
citazione di Cioran con la quale abbiamo aperto questa sezione, conviene
rispondere che le fatiche e i disastri realmente insopportabili sono quelli
che non ci appartengono e che ci sono imposti da questo mondo. La sola scusa
che noi troviamo al tempo che ci uccide, è la storia che ci offrirà la sua
rivincita. Il senso del nostro modo di essere è la possibilità che il legame
sociale non sia garantito da nient'altro che da se stesso, e che ciò
funzioni!

Se la crisi si aggrava, ci sarà sempre meno posto per le scelte intermedie.
Si potrà sempre meno reclamare «un po' meno polizia». La scelta sarà sempre
più tra ciò che esiste o niente polizia del tutto. È allora che l'umanità
dovrà davvero mostrare se, sì o no, ama la libertà.

Amore. Estasi. Crimine. Tre prodotti storici nei quali l'umanità ha vissuto
e vive le sue relazioni e pratiche affettive. L'amore, conseguenza dell'
indifferenza e dell'egoismo generalizzati, rifugio in qualche essere
privilegiato per caso e per necessità. È l'impossibile amore dell'umanità
che si realizza alla meno peggio in qualche individuo. L'estasi, escursione
al di fuori del profano, del banale, nel sacro, sfuggito, subito recuperato
e limitato dalla religione. Il crimine, unica via di uscita quando la norma
non può più essere né rispettata né aggirata.

L'amore, il sacro e il crimine sono dei modi di fuggire il presente e di
dargli un senso. Positivo o negativo: i tre includono ciascuno attrazione e
repulsione, e entrano in una relazione di attrazione e di rifiuto gli uni in
rapporto agli altri. L'amore è glorificato ma se ne diffida. Il sacro è per
essenza minaccia di profanazione, la chiama per escluderla e, con lo stesso
movimento, rafforzarsi. Il crimine è punito ma affascina.

Questi tre modi di trasporto fuori dal quotidiano, il comunismo non li
generalizzerà più di quanto li abolirà. Ogni vita (collettiva o individuale)
presuppone le sue frontiere. Ma il comunismo sarà amorale per il fatto che
non avrà più bisogno di norme fisse, esteriori alla vita sociale. Modi di
vita e modelli di comportamento circoleranno, non senza contrasto o
violenza, e saranno trasmessi, trasformati e prodotti conteporaneamente ai
rapporti sociali. Il sacro scomparirà in quanto separazione assoluta tra un
aldiqua e un aldilà. Così, nessuno spazio per la religione: né per quelle di
un tempo, né per quelle moderne che non conoscono più dèi, ma solo diavoli
da espellere dal corpo sociale. La libertà dell'uomo, la sua capacità di
modificare la propria natura, lo proiettano al di là di se stesso. Finora,
la morale, ogni morale, e tanto più insidiosamente dal momento che non si
presenta come tale, fa di questi aldilà degli enti che schiacciano l'essere
umano. Il comunismo non livellerà la «montagna magica», farà in modo di non
esserne dominato. Creerà e moltiplicherà le lontananze e il piacere di
perdervisi, ma anche la capacità di farne sorgere di nuove, il che sovverte
la sottomissione «naturale» a un qualsiasi ordine del mondo.