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Autore: Luca
Data:  
Oggetto: [Forumlucca] (no subject)
Baghdad 8 novembre 2002
interverranno i cantanti e i musicisti
Max Gazzé, Claudio Lolli, Nada,
Antonio Onorato, Pippo Pollina

A tale proposito si lancia un appello per la raccolta
fondi necessari a sostenere le diverse iniziative
umanitarie da attivare in occasione
del concerto a Baghdad.

L'iniziativa è curata da
AIUTIAMOLI A VIVERE di Pescara
STORIE DI NOTE di Roma
LABORATORIO PROGETTO POIESIS di Alberobello-Bari

Chiunque vorrà, potrà inviare un proprio contributo
sul C/C 7749 ABI 1030 CAB 41320
intestato al Laboratorio Progetto Poiesis, causale
“Un Euro per la Pace: il Cielo Sopra Baghdad”
Banca Monte dei Paschi di Siena filiale di
Alberobello.


I soggetti interessati potranno aderire all’iniziativa
inviando una e-mail indirizzata a
lab.poiesis@??? e/o yuro.doc@???
accompagnata da un proprio curriculum.

Le tre associazioni riporteranno un bilancio pubblico
completo di entrate ed uscite per documentare in modo
dettagliato l’uso della raccolta fondi denominata: “Un
Euro per la Pace: il Cielo Sopra Baghdad”.     




--- DESCRIZIONE DELL'INIZIATIVA ---


AIUTIAMOLI A VIVERE di Pescara
STORIE DI NOTE di Roma
LABORATORIO PROGETTO POIESIS di Alberobello-Bari
presentano
IL CIELO SOPRA BAGHDAD
CONCERTO PER LA PACE

poeti, musicisti,cantanti
iracheni e italiani, contro la guerra


La manifestazione intende organizzare l’8 novembre
2002 a Baghdad un concerto musicale e una lettura di
poesie con la presenza dei cantanti e musicisti
italiani: Max Gazzé, Claudio Lolli, Nada, Antonio
Onorato, Pippo Pollina, i poeti Giuseppe Goffredo e
Tusio De Iulis, il fotografo Michele Stallo, insieme a
poeti cantanti e musicisti iracheni.

Patrocinio Comune di Alberobello.

Con tale progetto le tre Associazioni, impegnate, da
anni, in favore dell’intervento umanitario e del
dialogo culturale con l’Iraq e i paesi mediterranei,
vogliono dare voce al dissenso di tutti coloro,
singoli cittadini o associazioni, che intendono
opporsi alla guerra.


Premessa

Chi non lo ricorda ancora quel cielo di piombo
notturno, oscuro, velenoso sopra Baghdad nei giorni
della guerra del Golfo del gennaio 1991. Chi non
ricorda l’angoscia di questi anni durante i giorni di
guerra prima in Libano, poi in Iraq, nel Kosovo,
nell’Afghanistan, in Palestina. Quanti in tutti questi
anni non hanno smesso di pregare, scongiurare, agire
affinché tutto questo non tornasse, che finalmente la
guerra fosse bandita dalla faccia della terra, che, -
basta! - non ci fossero altre vittime, nuove vittime
innocenti, che donne, bambini, vecchi, giovani, non si
aggirassero smarriti nei luoghi distrutti da una
guerra.
Ma così non è stato. Così non è. Ed ecco che ancora
una volta, inopinatamente, irresponsabilmente, ci
troviamo di fronte alla decisione degli Stati Uniti e
della Gran Bretagna di muovere guerra all’Iraq. Ecco,
che, ancora parole malate si aggirano per il mondo,
che si parla di armi, omicidi, destini segnati, morti,
bombardamenti, piani di guerra. Ecco che la memoria
dei morti, quelli di New York, produrrà altri morti.
Molti morti. Morti che chiameranno altri morti. Lutti
che produrranno altri lutti. Sangue che farà scorrere
altro sangue. Come in una gigantesca guerra civile
umana, di cui sì è coniato l’eufemismo di “scontro di
civiltà” e si dovrebbe parlare invece di crisi di
civiltà. Crisi dell’Occidente davanti a se stesso;
crisi morale di una parte del mondo che fa finta di
non vedere l’olocausto che si consuma nei paesi del
Terzo mondo; crisi ecologica ambientale di una natura
sempre più stanca in un mondo che adesso vuole imporre
la scelta fra mercato e democrazia, fra libertà civili
e sicurezza, fra sopravvivenza e guerra.

Perché

Accettare che il concetto di civiltà si fondi sulle
armi è un tragico errore per tutta l’umanità. Un anno
fa l’auspicio era che l’11 settembre 2001 fosse per
l’Occidente non un momento di vendetta, ma un momento
di riflessione per capire quello che stava succedendo
e interrogarsi sulle sorti del mondo, in quanto a
finire nell’imbuto di una crisi di dimensione
planetaria è l’intera specie umana. Non cogliere prima
di tutto questo segnale è il grande pericolo che può
spalancare davanti a noi l’abisso.
Quello che è seguito all’attacco di New York sono
soprattutto due cose: primo, la guerra in Afghanistan
con l’uccisione di altre quattromila persone, in gran
parte popolazione civile inerme; secondo, un’ulteriore
riproposizione di teorie e visioni etnocentriche,
pregiudizi e luoghi comuni che hanno allontanato le
civiltà del Sud e del Nord, ingrossando il solco di
diffidenza reciproca.
Il terrorismo ha permesso al presidente George W Bush
l’opportunità di chiedere una guerra fuori dai propri
confini, con l’adesione massiccia dell’opinione
pubblica. Una guerra duratura e totale con un grande
impiego di uomini e di mezzi, in cui gli Stati Uniti
hanno potuto costruire una coalizione di tutte le
potenze occidentali, con l’aggiunta della Russia e
l’appoggio della Cina. Così al bipolarismo del
perdurante confronto fra Est ed Ovest della Guerra
Fredda si è sostituito la contrapposizione fra il Nord
e il Sud. Ovvero i ricchi e i potenti contro i poveri
e i disperati.

In Iraq, dal 1991 ad oggi, sono morti più di
cinquecentomila bambini (cifre documentati dall’ONU),
per infezioni e malattie varie, dovute
all’impossibilità, per esempio, di riparare le
condotte idriche e al divieto di importare cloro per
disinfettare l’acqua. A questo crimine contro
l’umanità occorre aggiungere un altro milione di morti
causati dai bombardamenti ininterrotti effetto
dell’applicazione della “No fly zone”, nonché dei
residui radiativi lasciati sul terreno dell’uranio
impoverito. Ma al presidente Bush e al suo amico Blair
evidentemente non basta l’orrore di tanta sofferenza e
stanno per scatenare una guerra ancora più crudele e
distruttrice allo scopo di impadronirsi delle risorse
petrolifere dell’Iraq.

La guerra che si prospetta servirà ad imporre al mondo
ancora di più la logica del vinto e del vincitore, di
chi comanda e di chi deve ubbidire, di chi deve vivere
e di chi deve morire. Inaugurare un’epoca
“post-ethical”, dove tutte le norme internazionali sui
diritti dell’uomo, sul trattamento dei prigionieri,
sulle regole che anche in tempo di guerra la comunità
internazionale si è data, sono annullate. Dove l’ONU
affamato dalla mancanza di finanziamento dagli Stati
Uniti, è prigioniero della volontà americana. Dove gli
interessi dei potenti è l’unico metro di misura
valido, assoggetta ogni giudizio e giustifica ogni
comportamento.

E’ questo il nuovo ordine mondiale? Non è in questo
castello di menzogne che si generano i mostri del
terrorismo? Che cos’è davvero terrorismo? Chi sono
davvero i terroristi? Perché si preferisce spostare
tutto il male all’esterno lasciando che il cancro
dentro l’Occidente (legame tra finanza, banche,
industria degli armamenti, servizi segreti, mafia,
poteri legali, mercato) continui ad estendersi e a
radicarsi? Dovremmo abbandonare ogni speranza di
vedere l’Occidente riflettere sulla propria civiltà,
modelli culturali, etica, capacità di ragionare sulle
cose? Dovremmo arrenderci all’idea che, ancora una
volta, una mentalità rozza, sollecitata da interessi
giganteschi, inneschi il grande ordigno della guerra
anziché confessare i propri fallimenti? Manipolando la
mente di un numero enormi di persone pur di non
rivelare i propri interessi legati al controllo delle
risorse energetiche?

C’è di fronte alla guerra un apparato di informazione
e di persuasione compatto, massiccio, univoco. Tutte
le vie di uscita e di riflessione sono precluse. Il
conto che si fa è quello di instillare nella testa di
tutti l'ineluttabilità dell'evento: - Tutto è
inevitabile. Occorre convincersi. Non si può fare
altrimenti - . Il “patriottismo” che ci viene
richiesto è quello di riconoscerci una grande potenza
e di partecipare insieme al club dei grandi e dei
ricchi ai bombardamenti su Baghdad. Accettare di far
parte del ristretto club di chi intende imporre la
propria volontà di potenza agli altri, asservirli con
la forza, metterli a tacere e fargli ingoiare il
nostro punto di vista.
Come se essere italiani nel nuovo vocabolario
significa accettare che la flotta italiana spari
contro i “nemici” iracheni, afghani, arabi, musulmani,
che i nostri aerei vadano a bombardare i loro
territori, che i nostri soldati occupino suoli non
propri. Che in cambio di questa volontà di potenza gli
italiani rinuncino alla propria soggettività critica e
morale. Che finalmente come tutti dicono gli italiani
diventino adulti, realisti. Ovvero che l’identità
degli italiani non sia più quella legata alla loro
intelligenza, creatività, umanità; qualità per le
quali si sono sempre distinti nel mondo, ma che
diventino spietati sterminetor in terra straniera.

La guerra è un potente strumento che può cambiare
dall’interno la soggettività di un paese e i suoi
sentimenti. Il ferro scintillante della guerra appare,
davanti agli individui, per separare la loro umanità
da quella degli Altri, allontanare la loro sofferenza
dall’altrui. Si pone la distanza. Si definisce il
distacco. Si segna la lesione di civiltà. Si disegna
la geografia della frattura. Da una parte un Noi
dall’altro un Loro. Noi la civiltà, la democrazia, la
giustizia, Loro i barbari, i terroristi, la minaccia.
Questa distinzione poi penetra nella mente sociale, si
narcisizza trasformandosi in razzismo, violenza,
leghismo. Gli altri sono cancellati nei corpi e nelle
coscienze per ridurli a solo bersaglio. L’altro è un
volto deserto e un luogo senza storia. Noi siamo il
modello unico che merita di sopravvivere. L’Altro è
l’antagonista che non ha gli stessi diritti di vivere,
di fare figli, di sfamarsi, di muoversi nel mondo
liberamente. L’altro è un pericolo per la mia
sopravvivenza, il mio benessere, la mia sicurezza.

La guerra crea l’ideologia della guerra. Ma
soprattutto disegna il volto del nemico. Negli Stati
Uniti dopo l’11 settembre l’immagine di Bin Laden è
stata diffusa e indicata come quella del grande
nemico. Le sue foto sono apparse persino nei war games
o sono state stampate sulle sagome dei bersagli nei
poligoni di tiro: barba ieratica, viso allungato,
occhi tristi e inquieti, mitra in mano, jallabìa. Così
la figura dell’arabo semita, fondamentalista, ricco,
spietato, incarna in Occidente l’immagine di un nuovo
antisemitismo che diviene un “pensare antisemita”. Qui
il tradizionale antisemitismo neonazista non solo non
muore ma prolunga su un piano geo-etnico il proprio
pregiudizio, facendone una visione generale degli
altri. In qualche maniera il sentimento di odio si
estende dagli ebrei agli arabi, popolo non solo semita
ma soprattutto musulmano. In questo modo è
sottolineata, con una veemenza ancora più radicale, la
contrapposizione fra il Nord cristiano occidentale
anglosassone con il Sud mediterraneo africano
orientale musulmano semita. Sicché l’archetipo
antisemita arianista si intreccia con un
neo-orientalismo aggressivo che ha la funzione,
appunto, di disegnare il volto del nuovo nemico,
stigmatizzato all’interno del dualismo etnico Nord
Sud.
Sicché con la guerra contro l’Iraq, il “pensare
antisemita” riceverà in Occidente, una spinta
gigantesca, che già nella cronaca quotidiana, comincia
a dare i suoi frutti: ad esempio le scritte antisemite
sui muri d’Europa, la legge sull’emigrazione
Bossi-Fini, i raid razzisti contro gli emigrati. Ma
siamo solo agli inizi.

La guerra significa innanzitutto il fallimento di una
classe politica, che per nascondere i suoi errori, le
proprie bugie, i propri istinti di follia, punta
all’avventura della morte. E’ questa la menzogna di
cui si prova disgusto davanti alla guerra. Migliaia di
persone innocenti condannate a morire perché un ceto
di potere non ha fatto quello che doveva fare e
falsifica le carte sotto gli occhi di tutti. Sapendo
che altri e non chi comanda, pagheranno, soffriranno,
vedranno la morte e la morte nel dolore. Altri, molti
altri dovranno assumere su di sé l’angoscia di avere
ucciso e di avere inflitto atrocità. Avere mutilato
orrendamente, nell’atto della guerra, il senso della
propria umanità.

La pace non è un atteggiamento da vigliacchi ma un
progetto di vita, di società, di economia. Un modo di
stare al mondo, di intendere i rapporti fra gli
uomini, le relazioni fra i popoli. L’essenza di una
nuova politica che può sconfiggere la violenza e la
guerra. Dare al mondo una prospettiva nuova. La pace è
lo sforzo continuo di rendere possibile il mondo.
Riaprire davanti ai noi il futuro. La pace è lo sforzo
continuo di cercare l’altro. Lavorare
ininterrottamente affinché la volontà di pace si
trasformi in uno stato di pace. Capire che la specie
umana ha un unico destino.
Per questo diciamo no alla guerra! No! Oggi. No! per
domani. No per chi verrà! Solidali con il popolo
iracheno. Con la musica. Con la poesia. Chiamando
tutti a raccolta per riaprire IL CIELO SOPRA A
BAGHADAD.

24 settembre 2002 Alberobello-Pescara-Roma

Giuseppe Goffredo
Michele Stallo
Tusio De Iuliis
Rambaldo Degli Azzoni


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