in fondo trovate l'indirizzo, ma vale la pena di leggere tutto quello che qui 
e' scritto
matilde
3. RIFLESSIONE. ENRICO PEYRETTI: IL PACIFISMO NON BASTA, OCCORRE LA 
NONVIOLENZA 
[Pubblichiamo il testo della seconda parte (e le appendici collegate) di una 
lezione su "radici e realta' del pacifismo" tenuta da Enrico Peyretti (per 
contatti: peyretti@???) a Roma presso l'Universita' La Sapienza il 
18 aprile 2002. Il testo della prima parte abbiamo presentato nel notiziario 
di ieri. Abbiamo ripreso questo scritto dall'eccellente sito del Centro 
Sereno Regis di Torino (per contatti: e-mail: regis@???, sito: 
www.arpnet.it/regis/). Enrico Peyretti e' una delle più prestigiose figure 
della cultura della pace e della nonviolenza. Opere di Enrico Peyretti: (a 
cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei 
giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, 
Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999. E' diffusa 
attraverso la rete telematica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle 
lotte nonarmate e nonviolente] 
* Pacifismo? No, grazie 
[Tratto e modificato da Enrico Peyretti, Per perdere la guerra, Beppe Grande 
Editore, Torino 1999, pp. 61-63 (il libro puo' essere richiesto all'editore: 
via Stefano Clemente 15, 10143 Torino, tel. 0114371264)] 
Il pacifismo e' in crisi, si dice spesso. Certo, la pace e' in crisi fin 
quando non sara' sistema. Ma io rifiuto il concetto di pacifismo e di 
pacifisti (parole inventate dai guerrafondai, diceva Ernesto Balducci). Ne 
conosco diversi tipi. 
C'e' il pacifismo vile, di chi vuole una qualunque pace, magari a spese 
altrui: e' quello di Monaco 1938, a spese della Cecoslovacchia. E' meglio la 
violenza per una causa giusta che la vilta', insegnava Gandhi. Ma aggiungeva 
che non c'e' solo questo dilemma: c'e' la nonviolenza dei forti (non dei 
deboli), giusta ed efficace (Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, pp. 
18-19). 
Poi c'e' il semi-pacifismo: no a questa guerra, si' a quest'altra; no alla 
tua guerra, si' alla mia; no alla violenza dell'oppressore, si' a quella del 
ribelle o del liberatore. Il fatto e' che la violenza non libera mai davvero 
nessuno, lo rende solo imitatore del precedente oppressore. 
Terzo, c'e' il pacifismo vero e proprio: rifiuta ogni guerra. E' scritto 
nell'art. 11 della nostra grande Costituzione e nel proemio della Carta delle 
Nazioni Unite. Va bene, ma non basta. La guerra non e' l'unica violenza, e' 
solo il risultato distruttivo e cruento di tutte le altre forme di violenza. 
Percio' ripudiare la guerra non basta. 
La nonviolenza combatte anche le altre violenze, quella strutturale 
(nell'economia, nelle leggi) e quella culturale (nelle menti, 
nell'informazione, a giustificare le altre violenze). Anzi, la maggior parte 
delle lotte nonviolente e' sempre stata contro queste violenze, piu' diffuse 
e frequenti della guerra. Solo la cultura nonviolenta ha sviluppato e sta 
sviluppando le alternative di fondo alla guerra, perche' non agisce solo sul 
piano giuridico e istituzionale, ma sviluppa a livello interiore, culturale, 
politico, strategico, tecnico, teorico e pratico, le basi della difesa dei 
diritti umani, della lotta a tutte le ingiustizie, senza uso di mezzi 
violenti, che seminano violenza nel risultato anche quando l'intenzione e' 
giusta. 
La vera alternativa alla guerra non e' l'ambiguo pacifismo, ma la 
nonviolenza. La quale non e' la non-difesa, come credono militari, politici 
ignoranti, e cittadini consegnati al monopolio militare della difesa. Essa 
invece assume il conflitto, non lo elude, anzi lo solleva quando e' celato, 
ma lo conduce in modo costruttivo invece che distruttivo (cfr. Arielli, 
Scotto, I conflitti, Bruno Mondadori 1998. Oggi si puo' aggiungere 
l'importante volume di Johan Galtung, Pace con mezzi pacifici, Esperia, 
Milano 2000, di 500 pagine. Ne do una sintesi nell'Annuario della Pace. 
Italia, maggio 2000-giugno 2001, Asterios, Trieste 2001). 
La nonviolenza non si misura nei saltuari cortei pacifisti; essa e' una 
ricerca ed esperienza continua, crescente negli anni. Il Novecento e' il 
secolo della grande violenza e anche della nonviolenza efficace in tante 
grandi prove. 
Ogni potere consiste tutto nell'essere obbedito (Etienne de la Boetie, 
Discorso sulla servitu' volontaria, 1546-1550; Gene Sharp, Politica 
dell'azione nonviolenta, vol. 1, cap. 1, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1985); 
il popolo puo' far cadere senza violenza un potere ingiusto, come gigante dai 
piedi d'argilla. Tutto dipende dalla cultura ed educazione politica popolare. 
Questo e' il punto: liberare i popoli dalla stolta fede nelle armi. Cio' si 
puo fare oggi con la comunicazione internazionale. L'intervento armato e' 
retrogrado e disastroso. 
La pace e' sconfitta dalla rassegnazione alle armi. La storia diventera' 
umana quando la politica uscira' da questa superstizione, e non sara' piu' 
(parafrasando von Clausewitz) un'altra maniera di fare la guerra. 
* Riascoltando Guenther Anders 
[Articolo pubblicato in forma ridotta nel mensile torinese "Il foglio" (sito: 
www.ilfoglio.org), n. 293, giugno-luglio 2002] 
Macche' 11 settembre. Tutto e' cambiato il 6 agosto 1945, non l'11 settembre 
2001. L'11 settembre e' cambiato qualcosa solo per gli Stati Uniti: e' caduta 
la loro illusione - abbastanza infantile, per non dire stupida - di essere 
invulnerabili. Ma per il mondo, che e' qualcosa di piu' degli Usa, e' 
cambiato tutto nell'agosto '45. Dopo l'11 settembre io non mi sento in 
pericolo piu' di prima. Non vedo piu' di prima in pericolo le nostre citta', 
i nostri tesori d'arte e cultura, la nostra economia. Negli anni '80, con 
l'escalation missilistica in piena guerra fredda, mi sentivo ed ero, eravamo 
tutti, oggettivamente in pericolo molto piu' di ora. Gli Usa devono dettarci 
anche la loro paura e farci secernere la loro stessa quantita' di adrenalina? 
Noi abbiamo le nostre paure, le paure di tutti. La minaccia atomica su tutta 
l'umanita', e su tutto cio' che e' l'umanita', e' nata nell'agosto '45 ed e' 
un totalitarismo ormai inamovibile, che puo' solo crescere e diffondersi, 
proliferare, e che e' proliferato. Solo una crescita di coscienza e di 
opposizione resistente all'apparato scientifico-militar-industriale, che e' 
il maggior pericolo del mondo, puo' limitare quella minaccia. 
Se l'11 settembre fa crescere la coscienza collettiva negli Usa, paese primo 
autore del totalitarismo atomico, allora sara' una data importante: il giorno 
di un ingiustificabile delitto (piu' spettacolare ma non piu' grave di 
tantissimi altri) avra' avuto un effetto salutare. Se invece avra' accentuato 
in quel paese il senso di lesa maesta', la pretesa di una superiore 
inviolabilita', sara' stato il giorno di un nuovo effetto nefasto, 
conseguenza lontana anche del 6 agosto 1945. 
Il 12 luglio del 2002 saranno dieci anni dalla morte di Guenther Anders. 
Vedremo chi se ne ricordera'. Egli scriveva che l'arma atomica e' totalitaria 
per sua natura. Le sue Tesi sull'eta' atomica sono un testo capitale. 
Uscirono in appendice all'edizione italiana del suo libro Der Mann auf der 
Brueke. Tagebuch aus Hiroshima und Nagasaki, apparso in italiano col titolo 
Essere o non essere, Einaudi, Torino 1961, nella traduzione di Renato Solmi. 
Una delle tesi ha questo titolo: Carattere totalitario della minaccia 
atomica. Anders scrive: "La tesi prediletta da Jaspers fino a Strauss 
suona: 'La minaccia totalitaria puo' essere neutralizzata solo con la 
minaccia della distruzione totale'. E' un argomento che non regge. 1) la 
bomba atomica e' stata impiegata, e in una situazione in cui non c'era 
affatto il pericolo, per chi la impiego', di soccombere a un potere 
totalitario. 2) L'argomento e' un relitto dell'epoca del monopolio atomico; 
oggi e' un argomento suicida. 3) Lo slogan 'totalitario' e' desunto da una 
situazione politica, che non solo e' gia' essenzialmente mutata, ma 
continuera' a cambiare; mentre la guerra atomica esclude ogni possibilita' di 
trasformazione. 4) La minaccia della guerra atomica, della distruzione 
totale, e' totalitaria per sua natura: poiche' vive del ricatto e trasforma 
la terra in un solo Lager senza uscita. Adoperare, nel preteso interesse 
della liberta', l'assoluta privazione della stessa, e' il non plus ultra 
dell'ipocrisia". 
Dopo 40 anni, queste parole sono di quelle che ancora camminano davanti ai 
nostri passi, a farci luce sulla strada buia. Anche nella guerra attuale 
contro il terrorismo la minaccia atomica e' stata ventilata piu' di una volta 
dal ministro della difesa statunitense. Anders ci dice che questo pensiero e' 
suicida. Non ci sono soltanto i suicidi kamikaze. La pazzia onnidistruttiva 
e' un male diffuso. Questa minaccia folle e', di sua natura, un 
totalitarismo, un terrorismo totalitario. Il terrorismo e' un male diffuso. 
La terra umana cosi' minacciata e' "un lager senza uscita". La guerra per 
la "liberta' duratura" ha ridotto la liberta' non solo con le restrizioni a 
scopo di sicurezza, ma con la minaccia totale su tutta l'umanita'. Siamo 
nel "non plus ultra dell'ipocrisia". 
Nell'ultima delle sue tesi, Guenther Anders scrive: "Non solo per 
quest'ultima tesi, ma per tutte quelle qui formulate, bisogna aggiungere che 
sono state scritte perche' non risultino vere. Poiche' esse potranno non 
avverarsi solo se terremo continuamente presente la loro alta probabilita', e 
se agiremo in conseguenza. Nulla di piu' terribile che aver ragione. Ma a 
quelli che, paralizzati dalla fosca probabilita' della catastrofe, si perdono 
di coraggio, non resta altro che seguire, per amore degli uomini, la massima 
cinica: 'Se siamo disperati, che ce ne importa? Continuiamo come se non lo 
fossimo'". 
Disperati, non disperiamo. Non disperare significa lavorare, lottare. 
* Prima appendice: Alternative alla guerra 
[Articolo di Nanni Salio, ottobre 2001] 
Proviamo a formulare alcune proposte in positivo. 
1. Giustizia senza vendetta: la ricerca dei colpevoli, dei perpetratori, non 
solo materiali, ma anche dei mandanti, e' compito di un organismo 
sovranazionale e non di una singola parte. Gli USA si sono finora opposti 
alla costituzione di un Tribunale Penale Internazionale sui crimini contro 
l'umanita': cambieranno idea dopo l'11 settembre? Giuridicamente, questi 
attentati sono un crimine contro l'umanita' e non un atto di guerra, e come 
tali devono essere affrontati. 
2. Negoziazione: uno dei principi cardine della trasformazione nonviolenta 
dei conflitti e' la non demonizzazione dell'avversario e l'analisi corretta 
delle sue richieste. Che cosa hanno chiesto le parti che si sentono 
interpretate dal terrorismo? Tre sono i punti essenziali, tutti quanti non 
solo negoziabili, ma che da tempo avrebbero dovuto essere affrontati: 
definitiva risoluzione del conflitto Israele-Palestina; cessazione 
dell'embargo e dei bombardamenti sull'Iraq, con lo stillicidio di morti che 
mensilmente sono almeno pari a tutte le vittime dell'11 settembre; abbandono 
delle basi USA in Arabia Saudita. 
3. Costituzione di una commissione internazionale per la verita', la 
giustizia e la riconciliazione: questa commissione potrebbe cominciare a 
funzionare a partire da ong e gruppi di base, sulla falsariga di quella 
promossa in Sudafrica da Nelson Mandela e Desmond Tutu coinvolgendo in un 
secondo tempo le istituzioni statali e sovranazionali. 
4. Sostegno ai movimenti locali che lottano per i diritti umani e la 
democrazia con metodi nonviolenti: ovunque sono presenti gruppi che operano 
per una trasformazione nonviolenta dei conflitti, in particolare movimenti di 
donne come quello afghano Rawa (
www.ecn.org/reds/donne.html). 
5. Dialogo, educazione, cultura: e' il lavoro lento, ma indispensabile, per 
costruire un'autentica cultura della nonviolenza, compito primario di ogni 
educatore. Segnaliamo l'articolo di Umberto Eco, "Le guerre sante: passione e 
ragione" ("La Repubblica", 8 ottobre 2001, 
www.repubblica.it/online/mondo/idee/eco/eco.html). 
6. Movimento internazionale per la pace: cosi' come negli anni '80 una 
grandiosa mobilitazione riusci' a sconfiggere la minaccia nucleare, occorre a 
maggior ragione costruire un movimento delle societa' civili di ogni paese, 
del Nord e del Sud del mondo, che sappia imporre un cambiamento nell'agenda 
delle priorita' politiche sui temi globali: pace, ambiente e sviluppo, senza 
cadere nella trappola della protesta violenta. 
7. Uscire dall'economia del petrolio: fonte di ricchezza per pochi, di 
gigantesca corruzione e di minaccia ambientale planetaria, e' diventata anche 
una delle cause prevalenti delle guerre. E' indispensabile avviare 
prontamente la riconversione del sistema energetico su basi rinnovabili, 
decentrate, a piccola potenza. 
8. Controllo della finanza internazionale: il mondo e' pieno di "Bin Ladren" 
come si usa dire nel dialetto piemontese e forse di qualche altra regione, 
che disinvoltamente utilizzano i proventi della droga, del commercio di armi, 
della speculazione finanziaria e delle attivita' mafiose per costruire 
paradisi fiscali e potentati economici al riparo da ogni intrusione della 
giustizia. Cominciamo a liberarci dei "Bin Ladren" nostrani, che stanno 
varando leggi scandalose e offensive del piu' comune buon senso morale. 
9. Zone libere dall'odio: e' la proposta lanciata dalla ong americana "Global 
exchange" che richiama quella delle zone denuclearizzate degli anni '80. 
Dichiariamo le nostre scuole e i nostri quartieri "zone libere dall'odio", 
con un lavoro di base, di dialogo, di incontro, di scambio culturale che 
valorizzi differenze e capacita' costruttive e creative di trasformazione 
nonviolenta dei conflitti. 
10. Liberiamoci dal complesso militare-industriale: tutti i punti precedenti 
rischierebbero di risultare vani se la piu' potente causa di produzione delle 
guerre non venisse rimossa, in ogni paese, ma soprattutto in quelli piu' 
potenti, a cominciare dagli USA, sostituendo gli attuali modelli di difesa 
altamente offensivi e distruttivi con forme di difesa popolare nonviolenta. 
* Seconda appendice: la guerra non e' l'unico strumento 
[Documento del "Coordinamento gruppi per una giustizia solidale", Alba, 5 
novembre 2001] 
Si dice: ma di fronte ad un attacco brutale come quello dell'11 settembre 
bisogna reagire subito. 
E' vero: ma la guerra e' l'unico strumento che abbiamo? 
No, per fortuna ci sono molti modi per lottare contro il terrorismo 
impegnando in modo alternativo le enormi risorse umane ed economiche oggi 
assorbite dalla guerra 
1. Ratificare tutti immediatamente la convenzione per un tribunale 
internazionale che persegua e giudichi i responsabili di crimini terroristici 
e contro l'umanita'. E renderlo operativo con la collaborazione delle forze 
di polizia di tutti i paesi. 
2. Applicare con coraggio e rigore le leggi esistenti, per combattere in modo 
democratico le varie mafie, che sono i principali fiancheggiatori del 
terrorismo. 
3. Limitare drasticamente la vendita di armi (pesanti e leggere) sia agli 
stati che ai privati, applicando la legge 185 e impedendo traffici illeciti; 
e riconvertire l'industria bellica. 
4. Abolire subito il segreto bancario e i "paradisi fiscali" per individuare 
e "congelare" tutte le risorse economiche delle mafie e dei terroristi. 
5. Impegnarsi per l'abolizione dei servizi segreti, per i legami storici con 
varie forme di terrorismo e totalitarismo: una vera democrazia e' del tutto 
trasparente. 
6. Ricordiamo che ogni giorno 35.000 bambini muoiono di fame: dall'11 
settembre sono piu' di due milioni. Occorre togliere al terrorismo il 
pretesto di lottare per la giustizia e il consenso di popolazioni disperate. 
Per far questo si puo' agire, nei paesi che "favoriscono il terrorismo", in 
vari modi: 
- smettere di sostenere e riverire le classi dirigenti corrotte ed 
ultraricche, legate agli interessi della grande economia mondiale; 
- favorire l'alfabetizzazione e la coscientizzazione dei poveri; 
- sostenere le organizzazioni umanitarie locali, le lotte di liberazione 
delle donne, i partiti democratici sovente perseguitati (anche dando rifugio 
politico ai loro leader); 
- finanziare progetti di sviluppo locali, decentrati, con forti ricadute 
sociali, creando a questo scopo un fondo costituito attraverso la tassazione 
di tutte le transazioni e speculazioni finanziarie; 
- smettere le politiche di embargo che si ritorcono drammaticamente sulle 
popolazioni. 
7. Impegnarsi per la soluzione del conflitto arabo-israeliano, fonte di 
profonde umiliazioni e disperazione, terreno di coltura di fanatismo e 
terrorismo. 
8. Far funzionare l'ONU, riformandola in modo da sottrarla al ricatto delle 
nazioni piu' forti e dotandola di effettive forze di polizia internazionale. 
9. Promuovere scambi culturali, dialogo, conoscenza, nel rispetto delle 
differenze. 
4. GUERRE. GIULIANA SGRENA: GLI ALPINI NEL COVO DEI TALEBAN 
[Questo articolo abbiamo ripreso dal quotidiano "Il manifesto" del 2 ottobre 
2002] 
Gli alpini che parteciperanno alla Enduring freedom avranno il compito 
di "interdizione d'area", secondo quanto spiegato dal ministro della difesa 
Antonio Martino, dovranno evitare che elementi terroristici provenienti dal 
Pakistan si infiltrino in territorio afghano. Quindi saranno schierati a 
protezione della frontiera. Non conoscendo la situazione il compito degli 
alpini in partenza, si dice, in marzo, ovvero quando sara' finito il grande 
freddo ma intanto taleban e militanti di al Qaeda piu' avvezzi alle 
intemperie potrebbero essersi gia' ridispiegati, potrebbe apparire persino 
verosimile. 
Tra i circa 2.000 chilometri di confine tra Afghanistan e Pakistan sara' 
scelta la zona orientale, ovvero quella di Khost che sfugge a qualsiasi 
controllo: quello governativo, quello degli agenti speciali americani e dei 
loro mercenari, e ora persino a quello del piu' potente signore della guerra 
locale, Padshah Khan Zadran, che dopo essere riuscito per mesi ad occupare il 
palazzo del governatore, incarico affidato dal presidente Karzai ad Hakim 
Taniwal, dopo pesanti combattimenti ha perso le sue posizioni. Ma non si 
dara' per vinto, non solo continuera' a sfidare il governatore di Khost ma 
anche quello del capoluogo della provincia di Paktiya, Gardez. Il paradosso 
e' che Zadran, che combatte contro il presidente Karzai imposto dagli Stati 
Uniti, e' invece "l'uomo degli americani" perche' ha fornito loro i mercenari 
da utilizzare sul posto al prezzo di 200 dollari al mese. Un mensile non 
disprezzabile per gli standard locali. 
Quando siamo stati a Khost ci era sembrato che l'orologio della storia qui si 
fosse fermato: strade sterrate, polvere, per le strade esclusivamente uomini, 
tutti in abiti tradizionali, tutti superarmati. Nei giorni trascorsi nella 
zona non abbiamo incontrato una donna - nemmeno invisibile sotto il burqa -, 
non una bambina, solo bande armate rivali che scorrazzavano mentre sullo 
sfondo quasi ogni giorno si udiva il fragore delle armi, intercalate dai 
missili lanciati contro la base americana, situata in uno dei due aeroporti 
occupati dalle forze di Enduring freedom. Una delle due piste serve per 
l'atterraggio di aerei che sbarcano le truppe speciali o supporti logistici, 
l'altra serve per l'addestramento dei mercenari. Khost era una delle 
roccaforti dei taleban, da queste parti bazzicava anche Osama bin Laden 
quando aveva i suoi campi di addestramento poco lontani, ed e' ancora 
ritenuta una delle zone dove i residui taleban e di al Qaeda godono di 
supporto. E l'abbiamo verificato. Pur se non esplicito, si esprime 
soprattutto nell'ostilita' agli americani che hanno raso al suolo un 
villaggio, poco lontano da Khost, dove pure hanno bombardato numerose case. E 
anche la moschea. Dove si erano rifugiati esponenti di al Qaeda, riconoscono, 
ma la loro morte li ha santificati. Il cimitero dove sono sepolti, poco 
distante dalla moschea, e' diventato meta di pellegrinaggio, con esposizione 
di ex-voto, e c'e' chi giura che ci sono stati miracolati. I miracoli di al 
Qaeda! 
Khost si trova a meno di 40 chilometri dal Pakistan, ma non c'e' nessuna 
frontiera tra le zone pashtun afghane e quelle tribali pakistane; i locali, 
che conoscono le strade, passano da una parte all'altra - a piedi, con taxi o 
muli -, senza documenti, e cosi' fanno i contrabbandieri e i trafficanti di 
droga, e hanno fatto anche i taleban e i seguaci di bin Laden. Che in queste 
zone, due mesi fa, hanno diffuso volantini promettendo una taglia di 50.000 
dollari a chi consegnava un americano, vivo o morto. E quando l'esercito 
pakistano ha annunciato che sarebbe intervenuto in queste zone si e' scontato 
con una mobilitazione delle milizie tribali armate. Tra l'altro, hanno 
ripreso la loro attivita' anche le fabbriche di armi, un po' artigianali, che 
Musharraf aveva cercato di chiudere. Inutilmente le bombe e gli agenti 
speciali Usa, che a loro volta hanno sfondato in Pakistan, hanno dato la 
caccia a Haqqani, ex ministro taleban delle frontiere che viveva proprio a 
Khost e che ora si sarebbe alleato con un altro leader fondamentalista, 
Gulbuddin Hekmatyar. 
Questo il terreno su cui saranno paracadutati gli alpini italiani, in 
sostituzione dei Royal marine e degli americani diretti in Iraq. Al confronto 
persino l'incubo somalo potrebbe apparire ora quasi un sogno. 
5. DIRITTI UMANI. MARINELLA CORREGGIA: CHE FINE HA FATTO MORDECHAI VANUNU? 
[Anche questo articolo e' apparso sul quotidiano "Il manifesto" del 2 ottobre 
2002] 
Davvero gli Stati Uniti sono mossi dalla volonta' di bloccare con la guerra 
chi in Medio Oriente possiede armi nucleari e di distruzione di massa? Allora 
dovrebbero puntare a Tel Aviv, anziche' a Baghdad. Lo stato ebraico detiene 
fra 200 e 500 armi termonucleari e nel ramo e' la quinta maggiore potenza; 
con il suo arsenale nucleare, chimico e biologico, induce altri stati 
dell'area a seguire la stessa strada ed e' una minaccia per la pace e la 
stabilita' in Medio Oriente, area del mondo per la quale le risoluzioni del 
1991 post guerra all'Iraq chiedono il disarmo non convenzionale. Lo scorso 
aprile decine di deputati inglesi hanno presentato la proposta di mozione 
1213 che "riconosce Israele come stato nucleare grazie alla coraggiosa 
testimonianza di Mordechai Vanunu". 
Mordechai Vanunu, israeliano di origine marocchina, dopo aver lavorato per 
nove anni come tecnico nella base nucleare di Dimona, nel 1986 rivelo' a 
Peter Hounam del "Sunday Times" il segreto nucleare di Israele, testimoniato 
da foto e notizie. Una realta' conosciuta alle potenze del mondo ma tenuta 
nascosta ai popoli, a cominciare dagli israeliani. Per questo "tradimento" 
Vanunu fu rapito dal Mossad a Fiumicino il 30 settembre 1986, ricondotto in 
Israele e condannato a 18 anni di carcere. Ad Askhelon ha subito condizioni 
durissime: i primi due anni sotto illuminazione 24 ore su 24, i primi tredici 
in isolamento. Nel 1998 Vanunu ha passato la boa dei due terzi della pena ma 
la liberazione condizionale non e' mai venuta. Israele sostiene che egli e' 
tuttora una minaccia per la sicurezza; ma in realta' si tratta di una 
punizione "esemplare": "Mordechai ha sempre detto di voler continuare dopo la 
liberazione la sua battaglia antinucleare. Ci ha scritto piu' di una volta: 
e' tempo di disarmo, in Israele e nel mondo", spiega Ernest Rodker della 
Campagna inglese Free Vanunu. Al detenuto e' anche rimproverata la simpatia 
per la causa palestinese: i suoi avvocati hanno denunciato per calunnia il 
quotidiano "Yediot Aharonot" secondo il quale Vanunu avrebbe fornito 
informazioni su armi nucleari a membri di Hamas, colleghi di carcere. Le 
stesse autorita' di Askhelon hanno negato. 
Mordechai Vanunu, prigioniero di coscienza, e' un simbolo per i pacifisti 
perche', scrive David Polden sul bollettino della campagna inglese, "uno 
stato di Israele senza armi nucleari renderebbe piu' probabile un Medio 
Oriente senza nucleare e un accordo di pace comprensivo per l'area". Fra 
pochi giorni, finalmente,Vanunu sara' riascoltato dal tribunale israeliano: 
una prima tappa per una nuova richiesta di scarcerazione. 
Quest'anno l'anniversario del 30 settembre e' stato e viene celebrato in 
molte citta' del mondo con sit in, veglie e appelli. Fra le citta' mobilitate 
Hiroshima (le cui autorita' hanno piu' volte chiesto la scarcerazione del 
pacifista), Oslo, Lisbona, Londra, Toronto, Washington, Sydney, Boston, 
Stoccolma, Bologna e Roma. Il sit in romano (il 2 ottobre a largo Argentina) 
e' organizzato dal Comitato Vanunu, dalle donne in nero e dalla Wilfp, e 
sara' pro Vanunu e contro la guerra. 
Quali le possibilita' che Mordechai sia finalmente liberato? Finora il 
governo di Israele ha ignorato i numerosi appelli di premi Nobel, 
parlamentari, scienziati (una raccolta di adesioni e' in corso in Italia da 
parte del Comitato Vanunu), governi e cittadini. C'e' anche una via legale. 
In Italia il giudice Sica apri' un'inchiesta sul rapimento; poi archivio' il 
caso sostenendo curiosamente che era una montatura e Vanunu doveva essere in 
combutta con le autorita' del suo paese: un'assurdita' evidente dopo 16 anni 
di carcere. Per riaprire il caso giudiziario - cosa imbarazzante per Israele 
e che potrebbe contribuire alla liberazione anticipata del detenuto pur di 
evitare una simile grana - occorrono elementi nuovi. E sembrano esserci: un 
gruppo di marinai israeliani dichiaro' anni fa di aver effettuato un viaggio 
dall'Italia in Israele con il prigioniero a bordo. Alcuni legali si stanno 
muovendo. 
Il sito: nonviolence.org/vanunu chiede di inviare a Mordechai (Mordechai 
Vanunu, Askhelon prison, Askhelon, Israele) cartoline di buon compleanno: 48 
anni il 13 ottobre.