[Cerchio] una cartolina per Mordechai

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in fondo trovate l'indirizzo, ma vale la pena di leggere tutto quello che qui
e' scritto

matilde

3. RIFLESSIONE. ENRICO PEYRETTI: IL PACIFISMO NON BASTA, OCCORRE LA
NONVIOLENZA

[Pubblichiamo il testo della seconda parte (e le appendici collegate) di una
lezione su "radici e realta' del pacifismo" tenuta da Enrico Peyretti (per
contatti: peyretti@???) a Roma presso l'Universita' La Sapienza il
18 aprile 2002. Il testo della prima parte abbiamo presentato nel notiziario
di ieri. Abbiamo ripreso questo scritto dall'eccellente sito del Centro
Sereno Regis di Torino (per contatti: e-mail: regis@???, sito:
www.arpnet.it/regis/). Enrico Peyretti e' una delle più prestigiose figure
della cultura della pace e della nonviolenza. Opere di Enrico Peyretti: (a
cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei
giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella,
Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999. E' diffusa
attraverso la rete telematica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle
lotte nonarmate e nonviolente]

* Pacifismo? No, grazie

[Tratto e modificato da Enrico Peyretti, Per perdere la guerra, Beppe Grande
Editore, Torino 1999, pp. 61-63 (il libro puo' essere richiesto all'editore:
via Stefano Clemente 15, 10143 Torino, tel. 0114371264)]

Il pacifismo e' in crisi, si dice spesso. Certo, la pace e' in crisi fin
quando non sara' sistema. Ma io rifiuto il concetto di pacifismo e di
pacifisti (parole inventate dai guerrafondai, diceva Ernesto Balducci). Ne
conosco diversi tipi.

C'e' il pacifismo vile, di chi vuole una qualunque pace, magari a spese
altrui: e' quello di Monaco 1938, a spese della Cecoslovacchia. E' meglio la
violenza per una causa giusta che la vilta', insegnava Gandhi. Ma aggiungeva
che non c'e' solo questo dilemma: c'e' la nonviolenza dei forti (non dei
deboli), giusta ed efficace (Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, pp.
18-19).

Poi c'e' il semi-pacifismo: no a questa guerra, si' a quest'altra; no alla
tua guerra, si' alla mia; no alla violenza dell'oppressore, si' a quella del
ribelle o del liberatore. Il fatto e' che la violenza non libera mai davvero
nessuno, lo rende solo imitatore del precedente oppressore.

Terzo, c'e' il pacifismo vero e proprio: rifiuta ogni guerra. E' scritto
nell'art. 11 della nostra grande Costituzione e nel proemio della Carta delle
Nazioni Unite. Va bene, ma non basta. La guerra non e' l'unica violenza, e'
solo il risultato distruttivo e cruento di tutte le altre forme di violenza.
Percio' ripudiare la guerra non basta.

La nonviolenza combatte anche le altre violenze, quella strutturale
(nell'economia, nelle leggi) e quella culturale (nelle menti,
nell'informazione, a giustificare le altre violenze). Anzi, la maggior parte
delle lotte nonviolente e' sempre stata contro queste violenze, piu' diffuse
e frequenti della guerra. Solo la cultura nonviolenta ha sviluppato e sta
sviluppando le alternative di fondo alla guerra, perche' non agisce solo sul
piano giuridico e istituzionale, ma sviluppa a livello interiore, culturale,
politico, strategico, tecnico, teorico e pratico, le basi della difesa dei
diritti umani, della lotta a tutte le ingiustizie, senza uso di mezzi
violenti, che seminano violenza nel risultato anche quando l'intenzione e'
giusta.

La vera alternativa alla guerra non e' l'ambiguo pacifismo, ma la
nonviolenza. La quale non e' la non-difesa, come credono militari, politici
ignoranti, e cittadini consegnati al monopolio militare della difesa. Essa
invece assume il conflitto, non lo elude, anzi lo solleva quando e' celato,
ma lo conduce in modo costruttivo invece che distruttivo (cfr. Arielli,
Scotto, I conflitti, Bruno Mondadori 1998. Oggi si puo' aggiungere
l'importante volume di Johan Galtung, Pace con mezzi pacifici, Esperia,
Milano 2000, di 500 pagine. Ne do una sintesi nell'Annuario della Pace.
Italia, maggio 2000-giugno 2001, Asterios, Trieste 2001).

La nonviolenza non si misura nei saltuari cortei pacifisti; essa e' una
ricerca ed esperienza continua, crescente negli anni. Il Novecento e' il
secolo della grande violenza e anche della nonviolenza efficace in tante
grandi prove.

Ogni potere consiste tutto nell'essere obbedito (Etienne de la Boetie,
Discorso sulla servitu' volontaria, 1546-1550; Gene Sharp, Politica
dell'azione nonviolenta, vol. 1, cap. 1, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1985);
il popolo puo' far cadere senza violenza un potere ingiusto, come gigante dai
piedi d'argilla. Tutto dipende dalla cultura ed educazione politica popolare.
Questo e' il punto: liberare i popoli dalla stolta fede nelle armi. Cio' si
puo fare oggi con la comunicazione internazionale. L'intervento armato e'
retrogrado e disastroso.

La pace e' sconfitta dalla rassegnazione alle armi. La storia diventera'
umana quando la politica uscira' da questa superstizione, e non sara' piu'
(parafrasando von Clausewitz) un'altra maniera di fare la guerra.



* Riascoltando Guenther Anders

[Articolo pubblicato in forma ridotta nel mensile torinese "Il foglio" (sito:
www.ilfoglio.org), n. 293, giugno-luglio 2002]

Macche' 11 settembre. Tutto e' cambiato il 6 agosto 1945, non l'11 settembre
2001. L'11 settembre e' cambiato qualcosa solo per gli Stati Uniti: e' caduta
la loro illusione - abbastanza infantile, per non dire stupida - di essere
invulnerabili. Ma per il mondo, che e' qualcosa di piu' degli Usa, e'
cambiato tutto nell'agosto '45. Dopo l'11 settembre io non mi sento in
pericolo piu' di prima. Non vedo piu' di prima in pericolo le nostre citta',
i nostri tesori d'arte e cultura, la nostra economia. Negli anni '80, con
l'escalation missilistica in piena guerra fredda, mi sentivo ed ero, eravamo
tutti, oggettivamente in pericolo molto piu' di ora. Gli Usa devono dettarci
anche la loro paura e farci secernere la loro stessa quantita' di adrenalina?
Noi abbiamo le nostre paure, le paure di tutti. La minaccia atomica su tutta
l'umanita', e su tutto cio' che e' l'umanita', e' nata nell'agosto '45 ed e'
un totalitarismo ormai inamovibile, che puo' solo crescere e diffondersi,
proliferare, e che e' proliferato. Solo una crescita di coscienza e di
opposizione resistente all'apparato scientifico-militar-industriale, che e'
il maggior pericolo del mondo, puo' limitare quella minaccia.

Se l'11 settembre fa crescere la coscienza collettiva negli Usa, paese primo
autore del totalitarismo atomico, allora sara' una data importante: il giorno
di un ingiustificabile delitto (piu' spettacolare ma non piu' grave di
tantissimi altri) avra' avuto un effetto salutare. Se invece avra' accentuato
in quel paese il senso di lesa maesta', la pretesa di una superiore
inviolabilita', sara' stato il giorno di un nuovo effetto nefasto,
conseguenza lontana anche del 6 agosto 1945.

Il 12 luglio del 2002 saranno dieci anni dalla morte di Guenther Anders.
Vedremo chi se ne ricordera'. Egli scriveva che l'arma atomica e' totalitaria
per sua natura. Le sue Tesi sull'eta' atomica sono un testo capitale.
Uscirono in appendice all'edizione italiana del suo libro Der Mann auf der
Brueke. Tagebuch aus Hiroshima und Nagasaki, apparso in italiano col titolo
Essere o non essere, Einaudi, Torino 1961, nella traduzione di Renato Solmi.

Una delle tesi ha questo titolo: Carattere totalitario della minaccia
atomica. Anders scrive: "La tesi prediletta da Jaspers fino a Strauss
suona: 'La minaccia totalitaria puo' essere neutralizzata solo con la
minaccia della distruzione totale'. E' un argomento che non regge. 1) la
bomba atomica e' stata impiegata, e in una situazione in cui non c'era
affatto il pericolo, per chi la impiego', di soccombere a un potere
totalitario. 2) L'argomento e' un relitto dell'epoca del monopolio atomico;
oggi e' un argomento suicida. 3) Lo slogan 'totalitario' e' desunto da una
situazione politica, che non solo e' gia' essenzialmente mutata, ma
continuera' a cambiare; mentre la guerra atomica esclude ogni possibilita' di
trasformazione. 4) La minaccia della guerra atomica, della distruzione
totale, e' totalitaria per sua natura: poiche' vive del ricatto e trasforma
la terra in un solo Lager senza uscita. Adoperare, nel preteso interesse
della liberta', l'assoluta privazione della stessa, e' il non plus ultra
dell'ipocrisia".

Dopo 40 anni, queste parole sono di quelle che ancora camminano davanti ai
nostri passi, a farci luce sulla strada buia. Anche nella guerra attuale
contro il terrorismo la minaccia atomica e' stata ventilata piu' di una volta
dal ministro della difesa statunitense. Anders ci dice che questo pensiero e'
suicida. Non ci sono soltanto i suicidi kamikaze. La pazzia onnidistruttiva
e' un male diffuso. Questa minaccia folle e', di sua natura, un
totalitarismo, un terrorismo totalitario. Il terrorismo e' un male diffuso.
La terra umana cosi' minacciata e' "un lager senza uscita". La guerra per
la "liberta' duratura" ha ridotto la liberta' non solo con le restrizioni a
scopo di sicurezza, ma con la minaccia totale su tutta l'umanita'. Siamo
nel "non plus ultra dell'ipocrisia".

Nell'ultima delle sue tesi, Guenther Anders scrive: "Non solo per
quest'ultima tesi, ma per tutte quelle qui formulate, bisogna aggiungere che
sono state scritte perche' non risultino vere. Poiche' esse potranno non
avverarsi solo se terremo continuamente presente la loro alta probabilita', e
se agiremo in conseguenza. Nulla di piu' terribile che aver ragione. Ma a
quelli che, paralizzati dalla fosca probabilita' della catastrofe, si perdono
di coraggio, non resta altro che seguire, per amore degli uomini, la massima
cinica: 'Se siamo disperati, che ce ne importa? Continuiamo come se non lo
fossimo'".

Disperati, non disperiamo. Non disperare significa lavorare, lottare.



* Prima appendice: Alternative alla guerra

[Articolo di Nanni Salio, ottobre 2001]

Proviamo a formulare alcune proposte in positivo.

1. Giustizia senza vendetta: la ricerca dei colpevoli, dei perpetratori, non
solo materiali, ma anche dei mandanti, e' compito di un organismo
sovranazionale e non di una singola parte. Gli USA si sono finora opposti
alla costituzione di un Tribunale Penale Internazionale sui crimini contro
l'umanita': cambieranno idea dopo l'11 settembre? Giuridicamente, questi
attentati sono un crimine contro l'umanita' e non un atto di guerra, e come
tali devono essere affrontati.

2. Negoziazione: uno dei principi cardine della trasformazione nonviolenta
dei conflitti e' la non demonizzazione dell'avversario e l'analisi corretta
delle sue richieste. Che cosa hanno chiesto le parti che si sentono
interpretate dal terrorismo? Tre sono i punti essenziali, tutti quanti non
solo negoziabili, ma che da tempo avrebbero dovuto essere affrontati:
definitiva risoluzione del conflitto Israele-Palestina; cessazione
dell'embargo e dei bombardamenti sull'Iraq, con lo stillicidio di morti che
mensilmente sono almeno pari a tutte le vittime dell'11 settembre; abbandono
delle basi USA in Arabia Saudita.

3. Costituzione di una commissione internazionale per la verita', la
giustizia e la riconciliazione: questa commissione potrebbe cominciare a
funzionare a partire da ong e gruppi di base, sulla falsariga di quella
promossa in Sudafrica da Nelson Mandela e Desmond Tutu coinvolgendo in un
secondo tempo le istituzioni statali e sovranazionali.

4. Sostegno ai movimenti locali che lottano per i diritti umani e la
democrazia con metodi nonviolenti: ovunque sono presenti gruppi che operano
per una trasformazione nonviolenta dei conflitti, in particolare movimenti di
donne come quello afghano Rawa (www.ecn.org/reds/donne.html).

5. Dialogo, educazione, cultura: e' il lavoro lento, ma indispensabile, per
costruire un'autentica cultura della nonviolenza, compito primario di ogni
educatore. Segnaliamo l'articolo di Umberto Eco, "Le guerre sante: passione e
ragione" ("La Repubblica", 8 ottobre 2001,
www.repubblica.it/online/mondo/idee/eco/eco.html).

6. Movimento internazionale per la pace: cosi' come negli anni '80 una
grandiosa mobilitazione riusci' a sconfiggere la minaccia nucleare, occorre a
maggior ragione costruire un movimento delle societa' civili di ogni paese,
del Nord e del Sud del mondo, che sappia imporre un cambiamento nell'agenda
delle priorita' politiche sui temi globali: pace, ambiente e sviluppo, senza
cadere nella trappola della protesta violenta.

7. Uscire dall'economia del petrolio: fonte di ricchezza per pochi, di
gigantesca corruzione e di minaccia ambientale planetaria, e' diventata anche
una delle cause prevalenti delle guerre. E' indispensabile avviare
prontamente la riconversione del sistema energetico su basi rinnovabili,
decentrate, a piccola potenza.

8. Controllo della finanza internazionale: il mondo e' pieno di "Bin Ladren"
come si usa dire nel dialetto piemontese e forse di qualche altra regione,
che disinvoltamente utilizzano i proventi della droga, del commercio di armi,
della speculazione finanziaria e delle attivita' mafiose per costruire
paradisi fiscali e potentati economici al riparo da ogni intrusione della
giustizia. Cominciamo a liberarci dei "Bin Ladren" nostrani, che stanno
varando leggi scandalose e offensive del piu' comune buon senso morale.

9. Zone libere dall'odio: e' la proposta lanciata dalla ong americana "Global
exchange" che richiama quella delle zone denuclearizzate degli anni '80.
Dichiariamo le nostre scuole e i nostri quartieri "zone libere dall'odio",
con un lavoro di base, di dialogo, di incontro, di scambio culturale che
valorizzi differenze e capacita' costruttive e creative di trasformazione
nonviolenta dei conflitti.

10. Liberiamoci dal complesso militare-industriale: tutti i punti precedenti
rischierebbero di risultare vani se la piu' potente causa di produzione delle
guerre non venisse rimossa, in ogni paese, ma soprattutto in quelli piu'
potenti, a cominciare dagli USA, sostituendo gli attuali modelli di difesa
altamente offensivi e distruttivi con forme di difesa popolare nonviolenta.



* Seconda appendice: la guerra non e' l'unico strumento

[Documento del "Coordinamento gruppi per una giustizia solidale", Alba, 5
novembre 2001]

Si dice: ma di fronte ad un attacco brutale come quello dell'11 settembre
bisogna reagire subito.

E' vero: ma la guerra e' l'unico strumento che abbiamo?

No, per fortuna ci sono molti modi per lottare contro il terrorismo
impegnando in modo alternativo le enormi risorse umane ed economiche oggi
assorbite dalla guerra

1. Ratificare tutti immediatamente la convenzione per un tribunale
internazionale che persegua e giudichi i responsabili di crimini terroristici
e contro l'umanita'. E renderlo operativo con la collaborazione delle forze
di polizia di tutti i paesi.

2. Applicare con coraggio e rigore le leggi esistenti, per combattere in modo
democratico le varie mafie, che sono i principali fiancheggiatori del
terrorismo.

3. Limitare drasticamente la vendita di armi (pesanti e leggere) sia agli
stati che ai privati, applicando la legge 185 e impedendo traffici illeciti;
e riconvertire l'industria bellica.

4. Abolire subito il segreto bancario e i "paradisi fiscali" per individuare
e "congelare" tutte le risorse economiche delle mafie e dei terroristi.

5. Impegnarsi per l'abolizione dei servizi segreti, per i legami storici con
varie forme di terrorismo e totalitarismo: una vera democrazia e' del tutto
trasparente.

6. Ricordiamo che ogni giorno 35.000 bambini muoiono di fame: dall'11
settembre sono piu' di due milioni. Occorre togliere al terrorismo il
pretesto di lottare per la giustizia e il consenso di popolazioni disperate.
Per far questo si puo' agire, nei paesi che "favoriscono il terrorismo", in
vari modi:

- smettere di sostenere e riverire le classi dirigenti corrotte ed
ultraricche, legate agli interessi della grande economia mondiale;

- favorire l'alfabetizzazione e la coscientizzazione dei poveri;

- sostenere le organizzazioni umanitarie locali, le lotte di liberazione
delle donne, i partiti democratici sovente perseguitati (anche dando rifugio
politico ai loro leader);

- finanziare progetti di sviluppo locali, decentrati, con forti ricadute
sociali, creando a questo scopo un fondo costituito attraverso la tassazione
di tutte le transazioni e speculazioni finanziarie;

- smettere le politiche di embargo che si ritorcono drammaticamente sulle
popolazioni.

7. Impegnarsi per la soluzione del conflitto arabo-israeliano, fonte di
profonde umiliazioni e disperazione, terreno di coltura di fanatismo e
terrorismo.

8. Far funzionare l'ONU, riformandola in modo da sottrarla al ricatto delle
nazioni piu' forti e dotandola di effettive forze di polizia internazionale.

9. Promuovere scambi culturali, dialogo, conoscenza, nel rispetto delle
differenze.



4. GUERRE. GIULIANA SGRENA: GLI ALPINI NEL COVO DEI TALEBAN

[Questo articolo abbiamo ripreso dal quotidiano "Il manifesto" del 2 ottobre
2002]

Gli alpini che parteciperanno alla Enduring freedom avranno il compito
di "interdizione d'area", secondo quanto spiegato dal ministro della difesa
Antonio Martino, dovranno evitare che elementi terroristici provenienti dal
Pakistan si infiltrino in territorio afghano. Quindi saranno schierati a
protezione della frontiera. Non conoscendo la situazione il compito degli
alpini in partenza, si dice, in marzo, ovvero quando sara' finito il grande
freddo ma intanto taleban e militanti di al Qaeda piu' avvezzi alle
intemperie potrebbero essersi gia' ridispiegati, potrebbe apparire persino
verosimile.

Tra i circa 2.000 chilometri di confine tra Afghanistan e Pakistan sara'
scelta la zona orientale, ovvero quella di Khost che sfugge a qualsiasi
controllo: quello governativo, quello degli agenti speciali americani e dei
loro mercenari, e ora persino a quello del piu' potente signore della guerra
locale, Padshah Khan Zadran, che dopo essere riuscito per mesi ad occupare il
palazzo del governatore, incarico affidato dal presidente Karzai ad Hakim
Taniwal, dopo pesanti combattimenti ha perso le sue posizioni. Ma non si
dara' per vinto, non solo continuera' a sfidare il governatore di Khost ma
anche quello del capoluogo della provincia di Paktiya, Gardez. Il paradosso
e' che Zadran, che combatte contro il presidente Karzai imposto dagli Stati
Uniti, e' invece "l'uomo degli americani" perche' ha fornito loro i mercenari
da utilizzare sul posto al prezzo di 200 dollari al mese. Un mensile non
disprezzabile per gli standard locali.

Quando siamo stati a Khost ci era sembrato che l'orologio della storia qui si
fosse fermato: strade sterrate, polvere, per le strade esclusivamente uomini,
tutti in abiti tradizionali, tutti superarmati. Nei giorni trascorsi nella
zona non abbiamo incontrato una donna - nemmeno invisibile sotto il burqa -,
non una bambina, solo bande armate rivali che scorrazzavano mentre sullo
sfondo quasi ogni giorno si udiva il fragore delle armi, intercalate dai
missili lanciati contro la base americana, situata in uno dei due aeroporti
occupati dalle forze di Enduring freedom. Una delle due piste serve per
l'atterraggio di aerei che sbarcano le truppe speciali o supporti logistici,
l'altra serve per l'addestramento dei mercenari. Khost era una delle
roccaforti dei taleban, da queste parti bazzicava anche Osama bin Laden
quando aveva i suoi campi di addestramento poco lontani, ed e' ancora
ritenuta una delle zone dove i residui taleban e di al Qaeda godono di
supporto. E l'abbiamo verificato. Pur se non esplicito, si esprime
soprattutto nell'ostilita' agli americani che hanno raso al suolo un
villaggio, poco lontano da Khost, dove pure hanno bombardato numerose case. E
anche la moschea. Dove si erano rifugiati esponenti di al Qaeda, riconoscono,
ma la loro morte li ha santificati. Il cimitero dove sono sepolti, poco
distante dalla moschea, e' diventato meta di pellegrinaggio, con esposizione
di ex-voto, e c'e' chi giura che ci sono stati miracolati. I miracoli di al
Qaeda!

Khost si trova a meno di 40 chilometri dal Pakistan, ma non c'e' nessuna
frontiera tra le zone pashtun afghane e quelle tribali pakistane; i locali,
che conoscono le strade, passano da una parte all'altra - a piedi, con taxi o
muli -, senza documenti, e cosi' fanno i contrabbandieri e i trafficanti di
droga, e hanno fatto anche i taleban e i seguaci di bin Laden. Che in queste
zone, due mesi fa, hanno diffuso volantini promettendo una taglia di 50.000
dollari a chi consegnava un americano, vivo o morto. E quando l'esercito
pakistano ha annunciato che sarebbe intervenuto in queste zone si e' scontato
con una mobilitazione delle milizie tribali armate. Tra l'altro, hanno
ripreso la loro attivita' anche le fabbriche di armi, un po' artigianali, che
Musharraf aveva cercato di chiudere. Inutilmente le bombe e gli agenti
speciali Usa, che a loro volta hanno sfondato in Pakistan, hanno dato la
caccia a Haqqani, ex ministro taleban delle frontiere che viveva proprio a
Khost e che ora si sarebbe alleato con un altro leader fondamentalista,
Gulbuddin Hekmatyar.

Questo il terreno su cui saranno paracadutati gli alpini italiani, in
sostituzione dei Royal marine e degli americani diretti in Iraq. Al confronto
persino l'incubo somalo potrebbe apparire ora quasi un sogno.



5. DIRITTI UMANI. MARINELLA CORREGGIA: CHE FINE HA FATTO MORDECHAI VANUNU?

[Anche questo articolo e' apparso sul quotidiano "Il manifesto" del 2 ottobre
2002]

Davvero gli Stati Uniti sono mossi dalla volonta' di bloccare con la guerra
chi in Medio Oriente possiede armi nucleari e di distruzione di massa? Allora
dovrebbero puntare a Tel Aviv, anziche' a Baghdad. Lo stato ebraico detiene
fra 200 e 500 armi termonucleari e nel ramo e' la quinta maggiore potenza;
con il suo arsenale nucleare, chimico e biologico, induce altri stati
dell'area a seguire la stessa strada ed e' una minaccia per la pace e la
stabilita' in Medio Oriente, area del mondo per la quale le risoluzioni del
1991 post guerra all'Iraq chiedono il disarmo non convenzionale. Lo scorso
aprile decine di deputati inglesi hanno presentato la proposta di mozione
1213 che "riconosce Israele come stato nucleare grazie alla coraggiosa
testimonianza di Mordechai Vanunu".

Mordechai Vanunu, israeliano di origine marocchina, dopo aver lavorato per
nove anni come tecnico nella base nucleare di Dimona, nel 1986 rivelo' a
Peter Hounam del "Sunday Times" il segreto nucleare di Israele, testimoniato
da foto e notizie. Una realta' conosciuta alle potenze del mondo ma tenuta
nascosta ai popoli, a cominciare dagli israeliani. Per questo "tradimento"
Vanunu fu rapito dal Mossad a Fiumicino il 30 settembre 1986, ricondotto in
Israele e condannato a 18 anni di carcere. Ad Askhelon ha subito condizioni
durissime: i primi due anni sotto illuminazione 24 ore su 24, i primi tredici
in isolamento. Nel 1998 Vanunu ha passato la boa dei due terzi della pena ma
la liberazione condizionale non e' mai venuta. Israele sostiene che egli e'
tuttora una minaccia per la sicurezza; ma in realta' si tratta di una
punizione "esemplare": "Mordechai ha sempre detto di voler continuare dopo la
liberazione la sua battaglia antinucleare. Ci ha scritto piu' di una volta:
e' tempo di disarmo, in Israele e nel mondo", spiega Ernest Rodker della
Campagna inglese Free Vanunu. Al detenuto e' anche rimproverata la simpatia
per la causa palestinese: i suoi avvocati hanno denunciato per calunnia il
quotidiano "Yediot Aharonot" secondo il quale Vanunu avrebbe fornito
informazioni su armi nucleari a membri di Hamas, colleghi di carcere. Le
stesse autorita' di Askhelon hanno negato.

Mordechai Vanunu, prigioniero di coscienza, e' un simbolo per i pacifisti
perche', scrive David Polden sul bollettino della campagna inglese, "uno
stato di Israele senza armi nucleari renderebbe piu' probabile un Medio
Oriente senza nucleare e un accordo di pace comprensivo per l'area". Fra
pochi giorni, finalmente,Vanunu sara' riascoltato dal tribunale israeliano:
una prima tappa per una nuova richiesta di scarcerazione.

Quest'anno l'anniversario del 30 settembre e' stato e viene celebrato in
molte citta' del mondo con sit in, veglie e appelli. Fra le citta' mobilitate
Hiroshima (le cui autorita' hanno piu' volte chiesto la scarcerazione del
pacifista), Oslo, Lisbona, Londra, Toronto, Washington, Sydney, Boston,
Stoccolma, Bologna e Roma. Il sit in romano (il 2 ottobre a largo Argentina)
e' organizzato dal Comitato Vanunu, dalle donne in nero e dalla Wilfp, e
sara' pro Vanunu e contro la guerra.

Quali le possibilita' che Mordechai sia finalmente liberato? Finora il
governo di Israele ha ignorato i numerosi appelli di premi Nobel,
parlamentari, scienziati (una raccolta di adesioni e' in corso in Italia da
parte del Comitato Vanunu), governi e cittadini. C'e' anche una via legale.
In Italia il giudice Sica apri' un'inchiesta sul rapimento; poi archivio' il
caso sostenendo curiosamente che era una montatura e Vanunu doveva essere in
combutta con le autorita' del suo paese: un'assurdita' evidente dopo 16 anni
di carcere. Per riaprire il caso giudiziario - cosa imbarazzante per Israele
e che potrebbe contribuire alla liberazione anticipata del detenuto pur di
evitare una simile grana - occorrono elementi nuovi. E sembrano esserci: un
gruppo di marinai israeliani dichiaro' anni fa di aver effettuato un viaggio
dall'Italia in Israele con il prigioniero a bordo. Alcuni legali si stanno
muovendo.

Il sito: nonviolence.org/vanunu chiede di inviare a Mordechai (Mordechai
Vanunu, Askhelon prison, Askhelon, Israele) cartoline di buon compleanno: 48
anni il 13 ottobre.