vi invio parte di un articolo uscito oggi sulla stampa(!)
NON «TERRORISMO» MA «GUERRA CIVILE» IN UN PAESE DIPINTO COME IL CILE DI PINOCHET: IL CASO PERSICHETTI RIAPRE A PARIGI LA POLEMICA SUI NOSTRI ANNI DI PIOMBO
-Italia, un altro «11 settembre», scrive Libération giocando sulla coincidenza (voluta?) dai ministri della Giustizia Perben e Castelli che proprio quel giorno si sono incontrati a Parigi per parlare dei rifugiati italiani sopravvissuti agli anni di piombo e sfuggiti alle sentenze dei tribunali. «Processi alla streghe», scrive Nathaniel Herzberg su Le Monde. Italia, un paese «il cui sistema politico e giudiziario è più simile a quello della Turchia che a qualunque altro paese europeo», dice il sito Internet Samizdat per protestare contro l'amnesia «collettiva e selettiva» che ha portato all'arresto («rapimento») del brigatista Paolo Persichetti, il 25 agosto scorso. La prima estradizione dopo vent'anni di asilo offerto ai terroristi italiani che, secondo l'impegno di François Mitterrand, si erano disimpegnati dall'«ingranaggio infernale». La Lega dei diritti dell'uomo ieri mattina ha portato Danielle Mitterrand, vedova del presidente socialista, in una conferenza stampa, testimone quasi vivente di quell'impegno. La signora ha detto poche cose, esprimendo la «reazione dell'uomo della strada». Madame, s'è sentita tradita dalla decisione del governo francese? «Io personalmente no, ma molti francesi sì». Una lettera è stata indirizzata al presidente Chirac perché mantenga l'impegno con i fuggitivi italiani che si sono rifatti una vita e una famiglia. Si parla molto di Italia, in questi giorni in Francia, perché l'arresto di Persichetti (che da otto anni era però stato dichiarato estradabile) ha riaperto un universo sepolto. E non importa che Persichetti fosse davvero un caso a parte nel mondo di quel centinaio di «ex» che da una ventina d'anni hanno trovato nella Francia la loro «seconda patria», come disse in quei tempi Franco Piperno (che subito dopo venne tuttavia estradato). Persichetti, condannato per aver partecipato all'omicidio del generale dell'Aeronautica Licio Giorgieri nel 1987, cioè due anni dopo l'impegno preso da Mitterrand, insegnava all'Università Paris VIII, viveva alla luce del sole, pubblicava libri (uno con Oreste Scalzone, Il nemico inconfessabile), non faceva del male a nessuno, dicono i suoi amici. Ma tutto ciò non cancella i reati e nemmeno le pene. Il nuovo governo francese ha deciso di estradarlo eseguendo una decisione presa addirittura nel '94. Altri lo seguiranno? France 3 ieri sera ha detto che c´è una lista di 14 nomi. Primo Giorgio Pietrostefani, condannato a 22 anni come mandante dell´omicidio del commissario Calabresi. Intanto gli italiani manifestano, i francesi montano in cattedra e l'irrisolta questione «anni di piombo» si trasforma in un'immagine da incubo dell'Italia di quegli anni: sembra di leggere del Cile di Pinochet. In Italia, si dice, non ci fu un «terrorismo», ma una «guerra civile». Vediamo. Perché Libération parla di nuovo «11 settembre»? Perché «la parola terrorista - scrive Jean-Louis Fournel, professore a Paris VIII - nel 2002 si può applicare indifferentemente ai responsabili degli attentati più efferati che mai siano stati immaginati e a persone che una ventina di anni fa hanno creduto che la violenza armata potesse avere il ruolo di levatrice della storia...». Quella storia l'hanno dichiarata chiusa venendo in Francia, ma in Italia - denuncia il professore - restano «leggi d'emergenza approvate dopo il 1976 che non permettevano - e non permettono tuttora - giusti processi agli imputati». L'uso estensivo della nozione di «partecipazione a banda armata», accuse scarsamente credibili fondate sulle dichiarazioni dei pentiti e sull'utilizzo esorbitante delle «prove logiche», «teoremi», «complicità morali e addirittura psichiche». Le Monde intervista uno di quei protagonisti nel frattempo divenuto romanziere, Cesare Battisti, 47 anni, fondatore dei «Pac» (proletari armati per il comunismo), condannato all'ergastolo per più di un omicidio, tra gli altri quello di un maresciallo della polizia penitenziaria. Il quotidiano di Parigi ci informa che «Battisti non intende sciogliere con un pentimento il groviglio di contraddizioni stretto attorno a coloro che uccidono per difendere un'idea di giustizia e di libertà». Dunque né pentimenti, né rimorsi, né rimproveri da parte di quest'uomo che Raphaelle Rérolle descrive «con lo sguardo vivo» e dotato di «una libertà di parola che infastidisce il potere italiano». Quasi un monumento. In quegli anni, ci dice Le Monde, in quell'Italia ancora «mal rimessasi dal fascismo, i giovani vedevano i loro compagni ammazzati per le strade e i gruppi armati di estrema destra compiere impuniti attentati cruenti». Il potere ci ha spinto a prendere le armi, aggiunge Battisti, e i francesi non si rendono conto di quel che è successo. L'avvocato Jean-Jacques De Felice definisce l'Italia «un sistema giudiziario che tuttora continua a manifestarsi attraverso un regolamento di conti politici e che pertanto non è credibile. L'esperienza mi ha insegnato che la giustizia ha sempre delle difficoltà a fare i conti con i movimenti collettivi e gli scontri sociali estremi: bisogna trovare soluzioni politiche alla violenza». Michel Tubiana, della Lega dei diritti dell'uomo, dice che l'estradizione di Persichetti fa parte dei «piccoli e sordidi servizi tra governi» e aggiunge che nel governo italiano ci sono «persone implicate negli anni di piombo, persone che hanno fomentato attentati attribuiti alle Brigate Rosse e che non sono mai stati inquisiti». L´Humanité, giornale del partito comunista, aggiunge che allora in Italia «ci furono 20 mila processi e 5 mila compagni vennero arrestati non per quello che avevano fatto, ma per quello che erano: dei ribelli». Sul sito Samizdat, dove si raccolgono le firme per la liberazione di Persichetti, si leggono altre cifre: «I rifugiati in Francia fuggivano da uno Stato nel quale ci furono più di centomila denunciati per sovversione e partecipazione a banda armata: molti più dei fatti effettivamente commessi, ma molti meno di quanti parteciparono allora al movimento rivoluzionario». Su France Culture, radio pubblica, Jean Lebrun, conduttore della trasmissione Pot-au-feu (bollito) chiama a discutere della questione Cesare Battisti e il politologo esperto dell'Italia Marc Lazar, ma è imbarazzato quando deve definire i rifugiati: «Operaisti, gauchisti, non pronuncio la parola brigatisti...». E perché non la pronuncia? Uno di loro, Enrico Porsia, al quale Le Monde affida mezza pagina per spiegare come l'Italia sia il paese delle ingiustizie, non esita affatto a definirsi tale. E l'ex militante delle Brigate Rosse (colonna genovese) così sintetizza la storia d'Italia fino alla caduta del muro di Berlino: «...il paese fu governato dal sistema democratico-cristiano che teneva in ostaggio l'insieme del "popolo di sinistra" sotto il ricatto permanente di un colpo di Stato decretato da Washington». ( )
Cesare Martinetti
francoppoli@???
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La Lega dei diritti dell'uomo ieri mattina ha portato Danielle Mitterrand, vedova del presidente socialista, in una conferenza stampa, testimone quasi vivente di quell'impegno. La signora ha detto poche cose, esprimendo la «reazione dell'uomo della strada». Madame, s'è sentita tradita dalla decisione del governo francese? «Io personalmente no, ma molti francesi sì». Una lettera è stata indirizzata al presidente Chirac perché mantenga l'impegno con i fuggitivi italiani che si sono rifatti una vita e una famiglia. Si parla molto di Italia, in questi giorni in Francia, perché l'arresto di Persichetti (che da otto anni era però stato dichiarato estradabile) ha riaperto un universo sepolto. E non importa che Persichetti fosse davvero un caso a parte nel mondo di quel centinaio di «ex» che da una ventina d'anni hanno trovato nella Francia la loro «seconda patria», come disse in quei tempi Franco Piperno (che subito dopo venne tuttavia estradato). Persichetti, condannato per aver partecipato all'omicidio del generale dell'Aeronautica Licio Giorgieri nel 1987, cioè due anni dopo l'impegno preso da Mitterrand, insegnava all'Università Paris VIII, viveva alla luce del sole, pubblicava libri (uno con Oreste Scalzone, Il nemico inconfessabile), non faceva del male a nessuno, dicono i suoi amici. Ma tutto ciò non cancella i reati e nemmeno le pene. Il nuovo governo francese ha deciso di estradarlo eseguendo una decisione presa addirittura nel '94. Altri lo seguiranno? France 3 ieri sera ha detto che c´è una lista di 14 nomi. Primo Giorgio Pietrostefani, condannato a 22 anni come mandante dell´omicidio del commissario Calabresi. Intanto gli italiani manifestano, i francesi montano in cattedra e l'irrisolta questione «anni di piombo» si trasforma in un'immagine da incubo dell'Italia di quegli anni: sembra di leggere del Cile di Pinochet. In Italia, si dice, non ci fu un «terrorismo», ma una «guerra civile». Vediamo. Perché Libération parla di nuovo «11 settembre»? Perché «la parola terrorista - scrive Jean-Louis Fournel, professore a Paris VIII - nel 2002 si può applicare indifferentemente ai responsabili degli attentati più efferati che mai siano stati immaginati e a persone che una ventina di anni fa hanno creduto che la violenza armata potesse avere il ruolo di levatrice della storia...». Quella storia l'hanno dichiarata chiusa venendo in Francia, ma in Italia - denuncia il professore - restano «leggi d'emergenza approvate dopo il 1976 che non permettevano - e non permettono tuttora - giusti processi agli imputati». L'uso estensivo della nozione di «partecipazione a banda armata», accuse scarsamente credibili fondate sulle dichiarazioni dei pentiti e sull'utilizzo esorbitante delle «prove logiche», «teoremi», «complicità morali e addirittura psichiche». Le Monde intervista uno di quei protagonisti nel frattempo divenuto romanziere, Cesare Battisti, 47 anni, fondatore dei «Pac» (proletari armati per il comunismo), condannato all'ergastolo per più di un omicidio, tra gli altri quello di un maresciallo della polizia penitenziaria. Il quotidiano di Parigi ci informa che «Battisti non intende sciogliere con un pentimento il groviglio di contraddizioni stretto attorno a coloro che uccidono per difendere un'idea di giustizia e di libertà». Dunque né pentimenti, né rimorsi, né rimproveri da parte di quest'uomo che Raphaelle Rérolle descrive «con lo sguardo vivo» e dotato di «una libertà di parola che infastidisce il potere italiano». Quasi un monumento. In quegli anni, ci dice Le Monde, in quell'Italia ancora «mal rimessasi dal fascismo, i giovani vedevano i loro compagni ammazzati per le strade e i gruppi armati di estrema destra compiere impuniti attentati cruenti». Il potere ci ha spinto a prendere le armi, aggiunge Battisti, e i francesi non si rendono conto di quel che è successo. L'avvocato Jean-Jacques De Felice definisce l'Italia «un sistema giudiziario che tuttora continua a manifestarsi attraverso un regolamento di conti politici e che pertanto non è credibile. L'esperienza mi ha insegnato che la giustizia ha sempre delle difficoltà a fare i conti con i movimenti collettivi e gli scontri sociali estremi: bisogna trovare soluzioni politiche alla violenza». Michel Tubiana, della Lega dei diritti dell'uomo, dice che l'estradizione di Persichetti fa parte dei «piccoli e sordidi servizi tra governi» e aggiunge che nel governo italiano ci sono «persone implicate negli anni di piombo, persone che hanno fomentato attentati attribuiti alle Brigate Rosse e che non sono mai stati inquisiti». L´Humanité, giornale del partito comunista, aggiunge che allora in Italia «ci furono 20 mila processi e 5 mila compagni vennero arrestati non per quello che avevano fatto, ma per quello che erano: dei ribelli». Sul sito Samizdat, dove si raccolgono le firme per la liberazione di Persichetti, si leggono altre cifre: «I rifugiati in Francia fuggivano da uno Stato nel quale ci furono più di centomila denunciati per sovversione e partecipazione a banda armata: molti più dei fatti effettivamente commessi, ma molti meno di quanti parteciparono allora al movimento rivoluzionario». Su France Culture, radio pubblica, Jean Lebrun, conduttore della trasmissione Pot-au-feu (bollito) chiama a discutere della questione Cesare Battisti e il politologo esperto dell'Italia Marc Lazar, ma è imbarazzato quando deve definire i rifugiati: «Operaisti, gauchisti, non pronuncio la parola brigatisti...». E perché non la pronuncia? Uno di loro, Enrico Porsia, al quale Le Monde affida mezza pagina per spiegare come l'Italia sia il paese delle ingiustizie, non esita affatto a definirsi tale. E l'ex militante delle Brigate Rosse (colonna genovese) così sintetizza la storia d'Italia fino alla caduta del muro di Berlino: «...il paese fu governato dal sistema democratico-cristiano che teneva in ostaggio l'insieme del "popolo di sinistra" sotto il ricatto permanente di un colpo di Stato decretato da Washington». ( )</SPAN></SPAN></P></TD></TR>
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