[Cerchio] Fw: [movimento] La lunga marcia

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Szerző: karletto
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Tárgy: [Cerchio] Fw: [movimento] La lunga marcia
Questa volta "Umanità Nova" ha dato una bella "botta" al Totonno (Negri) ed
ai suoi chierici.
L'articolo qui forwardato, credo costituisca un aggiornamento assolutamente
ben mirato della critica alle più recenti derive (e relativi approdi)
dell'ineffabile Pifferaio Magico patavino.
Sperando che la prevista stesura definitiva dello scritto (più articolata e
destinata alle pagine del prossimo fascicolo di "Collegamenti Wobbly")
provveda a diradare l'ambigua schematicità con cui ora in esso si allude ad
una sorta di assoluta omogeneità fra l'esperienza originaria dei "Quaderni
Rossi" e il successivo "distacco" (dagli stessi) del filone che diede vita a
"Classe Operaia", ho da rilevare soltanto la "strana" omissione di
qualsivoglia richiamo a quanto "Vis-à-Vis"
(http://web.tiscalinet.it/visavis) è andata producendo, nel corso della sua
esistenza ormai pluriennale, sul versante di una radicale critica in senso
comunista libertario, nei confronti, appunto, dell'esperienza della
consorteria degli "ex-Pot.Oppini".
Stante il fatto che il testo in oggetto non disdegna un apparato di note con
utili "rimandi", sarebbe stato non azzardato presumere un qualche pur minimo
accenno alla battaglia che "Vis-à-Vis" è andata conducendo, inizialmente
pressochè "da sola", sin dai primi albori di quella che oggi è diventata la
... luminosa cometa del grande "pensatore dell'Impero", omaggiato su scala
mondiale: mera, innocente svista, serena scelta di priorità
"citazionistiche", o ennesimo tributo, inopportunamente pagato ad una
logica ... "da parrocchietta", dura purtroppo a morire un po' dovunque ...
chissà?!
Salut
Marco Melotti
__________________________________________

----- Original Message -----
From: "Meletta" <meletta@???>
To: <movimento@???>
Sent: Saturday, July 13, 2002 2:47 PM
Subject: [movimento] La lunga marcia


Da "Umanità Nova" n. 25 del 7 luglio 2002

La lunga marcia
Il professore, l'impero e i disobbedienti
Accade, a volte, che classiche domande (chi siamo? da dove veniamo? dove
andiamo?) ricevano risposte ritualizzate, perché acontestuali rispetto ai
movimenti
che si danno, perché supponenti l'esistenza del famoso filo rosso che si
tratta solo di
riannodare. Ci sono però almeno due categorie di persone che non corrono
questo
rischio: da una parte il professor Toni Negri e il milieu di intellettuali
post-operaisti
che lo omaggia, dall'altra, il movimento che oggi si fa chiamare
Disobbedienti. Non
c'è passato, non c'è presente, c'è solo - immaginifico e totalizzante - un
futuro che si
propaga all'indietro, risucchiandoci verso di esso.

La tesi principale che questo articolo tenterà di sviluppare è che il
professore, sul
piano teorico, offre pezze d'appoggio sicure, ma anche sovradimensionate
rispetto
alle reali necessità del movimento disobbediente, mentre la
caratterizzazione che
questo si da, offre sponda alle teorizzazioni negriane. Niente di
particolarmente
originale, d'accordo, ma non si può nascondere l'ammirazione per una
corrispondenza particolarmente riuscita fra teoria e prassi.

Cominciamo dal passato. Nella sua recente opera Impero[1] - Toni Negri
procede ad
una sistematica demolizione e reinterpretazione della storia dell'umanità
dell'ultimo
millennio. Non è un impazzimento, è, in realtà, un'operazione molto lucida
che tende
a scardinare la periodizzazione marxista fondata sul susseguirsi di forme
produttive
(modi di produzione). Un po' grossolanamente potremmo dire che una storia
delle
idee e delle autorappresentazioni sostituisce quella della materialità delle
forze
produttive e dei rapporti sociali determinati. Il capitalismo sbiadisce in
una tendenza
alla modernizzazione; il suo rapporto con gli apparati statuali diventa un
conflitto tra
immanenza e trascendenza; la funzione repressiva di questi ultimi si
annacqua nel
passaggio dal regime disciplinare a quello del controllo introiettato;
l'imperialismo
scompare, come una fase superata dello sviluppo capitalistico; la lotta di
classe
diventa un episodio irripetibile; e così via.

Per il professore, insomma, - e qui siamo all'oggi, riverberato dal domani -
siamo
entrati nell'era della post-modernizzazione, nella quale questa vis senza
determinazioni spiana le rughe della società umana transnazionalizzandola e
spostando le contraddizioni e le difficoltà ad un livello superiore, quello
globale. Ma
attenzione, non siamo semplicemente di fronte al solito escamotage, molto
praticato
e che consente di non fare mai i conti con i propri errori, perché a livello
globale c'è
l'Impero, onnicomprensivo e onnisignificante. L'Impero non è solo il nuovo
ordine
della globalizzazione (come cita il sottotitolo del libro di Negri) ma è
anche
l'articolazione di questo ordine a tutti i livelli, è il sistema dei poteri,
è potere
imperiale. Impero è un non luogo, è dunque inutile cercarne una
localizzazione, gli
Stati Uniti non sono il centro dell'Impero, perché questi non ha un centro.
L'Impero
(mi si perdoni l'intreccio alchimistico-hegeliano) è l'essenza intima del
processo
storico umano, distillata dalle sue vicende parziali e che contiene in sé,
in nuce, tutti
gli elementi per chiudere, in gloria, questo processo. Ma usciamo un attimo
dalla
metafisica e, empiricamente, come dice il professore, analizziamo brevemente
la
"piramide della costituzione globale" [2], ovvero quanto c'è di osservabile
sovrastrutturalmente del costituirsi del potere imperiale.

Al vertice ci sono gli Stati Uniti che "esercitano l'egemonia sull'uso
globale della
forza"; al secondo livello c'è "un gruppo di stati-nazione che controllano i
principali
strumenti monetari globali", questi stati-nazione si ritrovano insieme in
una serie di
organismi (G8, club di Parigi, Londra e Davos; al terzo livello c'è "un
complesso
eterogeneo di associazioni (comprendente più o meno le stesse potenze che
esercitano l'egemonia sui livelli militari e monetari) che dispiegano un
potere
culturale e biopolitico di portata globale". Questi tre livelli possono
essere definiti il
"comando unificato globale".

Al di sotto c'è il piano a partire dal quale "il comando viene distribuito
in modo più
estensivo ed articolato su tutta le superficie mondiale". Su questo piano
della
piramide troviamo due livelli: "le reti delle corporazioni capitalistiche
transnazionali"
(le multinazionali) e il "complesso degli stati-nazione" che in diversi modi
producono
e regolano l'organizzazione dei mercati.

Il piano sottostante della piramide, il più vasto, è composto da "organismi
che
rappresentano gli interessi popolari nell'organizzazione del potere
globale". Qui
troviamo gli stati-nazione subalterni e le organizzazioni che in qualche
modo
rappresentano "la società civile": le ONG in generale, le organizzazioni per
la difesa
dei diritti umani, i gruppi pacifisti, gli organismi per l'assistenza medica
e per la lotta
contro la fame, ecc.

È una bella piramide, che governa una società "liscia" come ama dire il
professore.
Comando, potere, articolazioni del potere, rappresentanza della società
civile ovvero
del popolo. E se il popolo rappresenta la Moltitudine, allora il cerchio si
chiude: nel
momento in cui la Moltitudine entrasse direttamente nella piramide
"contaminandola"
(riplasmandola) il gioco sarebbe fatto, sarebbe la fine della storia, la
società nuova.

Rimane solo qualche dettaglio. Che cosa è la Moltitudine per il professore?
Che
rapporto ha, se l'ha, con il proletariato, con la working class? La risposta
alla prima
domanda è semplicissima: la Moltitudine sono tutti coloro che sono
sottoposti
all'Impero, ma non vi hanno ancora cittadinanza, è dunque un insieme chiuso
e
aperto al contempo dice il professore, Moltitudine è l'Antagonista (ma credo
che per il
professore sia una parola un po' troppo forte) al potere imperiale, la
contraddizione
immanente (questo gli piacerebbe di più) all'Impero. La risposta alla
seconda è
ugualmente semplice: è un rapporto di inclusione totale in quanto la working
class è
privata delle sue determinazioni classiche (estrazione di plusvalore, lavoro
salariato)
tramite il vecchio giochino della produzione immateriale. Chiariamo meglio
questo
punto: se la produzione immateriale (intellettuale, culturale, affettiva,
ecc.) è ormai
egemone (fuori e dentro la fabbrica, grazie all'informatizzazione) nei
confronti di
quella materiale, che senso ha conservare una segmentazione sociale fondata
sulla
seconda? Tanto più che, come ci conferma il professore, tutti hanno un
cervello,
delle capacità, delle risorse intellettuali e delle conoscenze che possono
mettere a
profitto come "produttori immateriali". E questo offre grandi possibilità
alle
"singolarità" di cui è composta la Moltitudine.

Ma passiamo ora alla lunga marcia dei Disobbedienti. Le ex Tute Bianche -
pollone
della vecchia area autonoma - non hanno una storia lunghissima, ma densa.
Potremmo partire - sorvolando gli illustri antecedenti teorici di Quaderni
Rossi e
Classe Operaia [3] dei quali sicuramente i Disobbedienti non conservano
alcuna
memoria - dalla costituzione dei primi centri sociali, zone occupate con una
forte
motivazione antagonista (in altri tempi si sarebbe potuto dire sovversiva),
titolari di
una progettualità "forte", sulla quale si poteva non essere d'accordo, ma
che aveva
una sua dignità e una sua coerenza (la fuoriuscita delle contraddizioni
dalla fabbrica
e il loro riversamento nel sociale). Ma la fase duramente antagonista
(all'interno della
quale si consumava la separazione tra il ceto colto e quello militante),
coinvolta nella
crisi generale della sinistra di classe, si esauriva progressivamente,
portando ad una
spaccatura (evidenziata dalla famigerata Carta di Milano) tra l'ala
vetero-marxista e
quella innovatrice, rappresentata grosso modo dai centri sociali del
nord-est. E qui
siamo a ieri, gli invisibili, le prime Tute Bianche, conservavano un
progetto
debolmente antagonista, ma almeno radicalmente riformista (potremmo dire con
Andrea Fumagalli di utopia riformista), che aveva una certa coerenza
interna: dalla
considerazione della "invisibilità" sociale di vasti strati alla richiesta
del cosiddetto
reddito di cittadinanza come collante tra lavoratori, lavoratori in nero,
precari e
disoccupati. Purtroppo alla debolezza intrinseca della piattaforma [4] si
aggiungeva
l'interpretazione della prassi in termini esclusivamente mass-mediatici. In
altre parole
l'attenzione ai movimenti e alle motivazioni reali dei senza-lavoro
diventava
pressoché nulla e le Tute Bianche assumevano una funzione sostitutiva e non
rappresentativa di questi. La crisi politica delle T.B. nasce da qui, ma
anche dalla
disfatta "militare" subita nelle giornate di Genova del luglio dello scorso
anno. In
quell'occasione è andato in crisi momentanea un altro aspetto della
strategia
tutabianchista e cioè la capacità di rappresentare (più che di gestire) un
rapporto
complesso con le istituzioni, ma dove le trattative e la mediazione possono
cedere in
qualsiasi momento il passo alla repressione più dura. Ma veniamo all'oggi:
le Tute
Bianche scompaiono e compaiono i Disobbedienti (ci sono anche i giovani di
RC)
che ora hanno anche una sorta di documento programmatico [5]. Per chi non
avesse
modo di consultarlo tentiamo di metterne in luce i tratti salienti: in primo
luogo c'è il
trasferimento d'obbligo al livello globale (Per la resistenza globale alla
guerra
globale) dove si immagina un movimento generalizzato "contro la guerra come
contro gli attacchi del padronato industriale al lavoro, contro
l'aziendalizzazione
dell'istruzione come contro le leggi razziste" [6] che nella realtà non
esiste se non
come somma di movimenti parziali non comunicanti. In secondo luogo c'è una
scontata quanto singolare rivendicazione di protagonismo nel percorso che ha
portato allo sciopero generale del 16 aprile (percorso al quale, nella
sostanza, i
Disobbedienti non hanno portato nessun apporto) e un benvenuto al ritorno
della
CGIL sul terreno della lotta che tace completamente sulle motivazioni e le
dinamiche
complesse che l'hanno determinato. Infine, in terzo luogo, l'occupazione
della
dimensione "municipalistica", che in soldoni significa il rapporto stretto
con istituzioni
locali, la caduta definitiva della pregiudiziale antielettoralistica (ma c'è
mai stata?) e il
passaggio esplicito - non dichiarato ma praticato - alla dimensione
cooperativistica
e/o microimprenditoriale. Il cerchio si chiude, le due lunghe marce
convergono,
l'universo parallelo del professor Toni Negri fornisce il contesto teorico
ai programmi
dei Disobbedienti. La Moltitudine ha già la sua rappresentanza e il suo
percorso di
"contaminazione" dell'Impero.

Un compagno, un paio di anni fa, sosteneva che il percorso delle Tute
Bianche fosse
neo-riformista. Aveva torto, il riformismo storicamente si è sempre
manifestato
attraverso grandi movimenti di massa dei lavoratori e dure lotte, su
obbiettivi
largamente condivisi e con il progetto di strappare una fetta di potere allo
Stato e al
capitale. Quello dei Disobbedienti è semplicemente un progetto di
"integrazione
controllata e progressiva" nell'esistente, senza l'intenzione reale di
modificarne nulla.

La lunga marcia sta finendo.

Walker

Una versione più approfondita di questo articolo comparirà sul prossimo
numero di
Collegamenti Wobbly, che uscirà a settembre di quest'anno.


Note

[1] Michael Hardt / Antonio Negri, Impero. Il nuovo ordine della
globalizzazione,
Rizzoli, Milano, 2002.

[2] Salvo diverso avviso tutte le frasi e i termini virgolettati e in
corsivo sono tratti
dall'opera succitata.

[3] Per una storia un po' fuori dalle righe di quelle esperienze cfr. Mauro
Guatelli, Alle
origini del '68: l'operaismo, in AltraStoria n. 4 del gennaio 1999 e Il
fascino discreto
dell'operaismo, in AltraStoria n.5 dell'agosto 2000.

[4] Cfr. su questo punto: Guido Barroero, Quando le parole costano poco e
Cosimo
Scarinzi, La Tobin tax, in Collegamenti Wobbly n.8-9 del 1999-2000.

[5] Cfr. Lettera aperta del movimento delle e dei disobbedienti, comparso da
qualche
parte sulla rete il 6 giugno 2002.

[6] Ivi