Genova, nell'inchiesta finisce il funzionario Troiani
Secondo l'accusa potrebbe aver portato nella scuola gli ordigni
G8, vicequestore indagato per le molotov alla Diaz
di CARLO BONINI e MASSIMO CALANDRI
GENOVA - Oggi, più di ieri, la domanda soffoca il Viminale di umori neri.
Intossica il metabolismo degli apparati, che dalla risposta attendono
segnali sul proprio destino. E dunque e ancora una volta: chi truccò le
carte nella notte della "Diaz"? Quale guanto di poliziotto depose in buon
ordine, nell'androne della scuola, due molotov posticce, pezzo forte di una
messa in scena calunniosa? Dalla sera di lunedì, la scena fissata dalla
Procura di Genova si anima di un nuovo nome, un nuovo volto su cui
l'indagine coltiva il sospetto: il vicequestore Pietro Troiani. Entrato
come teste nell'ufficio dei pubblici ministeri Enrico Zucca e Francesco
Cardona Albini, il funzionario ne è uscito tre ore dopo con un invito a
nominare un difensore di fiducia, che nella processo penale significa
immediata iscrizione al registro degli indagati.
Per quale reato - lo vedremo - ha in fondo poca importanza (false
dichiarazioni al pm, favoreggiamento, falso? Le ipotesi non sono poi
infinite e Carlo Biondi, legale di Troiani, non ha intenzione di
discuterne). Perché in questa storia, che conosce ora il suo ennesimo
gomito, quel che ha decisamente più importanza sono le singole circostanze
e responsabilità, la loro concatenazione. Torniamo dunque per l'ennesima
volta alla notte del 21 luglio, alle testimonianze allegate ai verbali
della Procura di Genova, a questo nuovo nome che ora si muove sulla scena
del fatto.
Il vicequestore Pietro Troiani è per mesi soltanto un'ombra e della sua
presenza a Genova nei giorni del G8 danno neutro conto i documenti di
servizio. E' arrivato da Roma per essere accorpato alla "logistica" del
Reparto Mobile. Per fare, né più e né meno, che l'ufficiale di collegamento
tra la questura e i reparti celere sul terreno. E' una faccia nota,
Troiani. Soprattutto a Vincenzo Canterini, comandante del primo reparto
mobile di Roma. E' stato uno dei suoi "ragazzi" fino a qualche mese prima
del G8. Un trasferimento lo ha portato altrove, alle scuole.
Comunicazione promozionale
Della presenza a Genova del vicequestore Troiani, dunque, non vi sarebbe
motivo di occuparsi. E così è per mesi. Il suo nome non compare
nell'inchiesta, non affiora nei ricordi di funzionari e dirigenti che
vengono travolti dall'onda di piena della prima iscrizione al registro
degli indagati. Troiani non è funzionario tra i responsabili
dell'operazione alla "Diaz", la sua firma non compare nei verbali di
sequestro di quel campionario di "oggetti atti ad offendere" che goffamente
verranno esibiti la mattina del 22 luglio sul tavolo della Questura di
Genova a giustificare l'operazione. Finché qualcosa accade.
Ricorderete forse come il vicequestore aggiunto Pasquale Guaglione, il 10
giugno scorso, nello svelare la reale provenienza delle molotov della
"Diaz" ("Le sequestrai io il pomeriggio precedente l'irruzione in una
aiuola di Corso Italia"), aggiunga in quella circostanza un dettaglio
importante: "Le misi su un mezzo del Reparto mobile di Roma". E', in quel
momento, l'ultima importante traccia che, nello svelare la messa in scena,
ne rivela il filo rosso che porta agli uomini di Canterini.
Attenzione ora a cosa accade. Massimiliano Di Bernardini, vicequestore
aggiunto della squadra mobile di Roma, presente sulla scena della "Diaz" la
notte del 21 luglio, interrogato dai pubblici ministeri consegna al verbale
un ricordo nitido, il cui dettaglio illumina e incrocia i ricordi di
Guaglione. Indagato, Di Bernardini è funzionario che ingrassa il sospetto
dei pm. Lo incalzano contestandogli la circostanza di essere "uomo chiave"
dei fatti che precedettero e seguirono l'irruzione. Lo accusano di aver
mentito o quantomeno cucinato alla buona le informazioni che innescano la
decisione di fare irruzione nella "Diaz". Di avere partecipato alla
riunione che alle 22.30 del 21 luglio vede seduti intorno ad un tavolo
Andreassi, La Barbera, Fiorentino, Luperi, Gratteri, Caldarozzi, Murgolo,
Colucci.
Insomma, la punta di lancia del Viminale. La prima a essere spezzata sulla
base di un ragionamento deduttivo. Che suona più o meno così. Delle due
l'una: o Di Bernardini, quella notte, mente e inganna l'intera catena di
comando, spingendola ad un'operazione che non ha presupposti. O, peggio,
l'intera catena di comando si acconcia ad una menzogna collettiva,
preoccupandosi poi di fornirne prove posticce.
La prova? Nella domanda che dovrebbe schiacciare Di Bernardini. I pm gli
contestano i ricordi di almeno due funzionari presenti quella notte in via
Battisti: "Le due molotov erano nelle mani del vicequestore che per primo
aveva segnalato la sassaiola alla Diaz, Di Bernardini". Se dunque lui
conferma, il cerchio è chiuso. Ma Di Bernardini fa qualcosa di diverso, che
reingarbuglia la matassa: "E' vero - dice - le molotov le avevo in mano io,
ma mi vennero consegnate da Troiani".
Troiani? E' cosa c'entra Troiani, un vicequestore aggiunto della logistica
sulla scena della "Diaz"? Le circostanze che la sua firma non figuri sul
verbale di sequestro delle molotov, che quale funzionario del "logistico"
potesse avere accesso a uomini e mezzi dei reparti celeri (ricordate
Guaglione? "Misi le molotov su un mezzo del Reparto mobile") non sembrano
aiutarlo. Né una mano finisce per darla Canterini. Al telefono, il capo del
primo reparto Mobile se la ride sornione: "Ma và? Troiani? E che ci faceva
lì? Certo non era con me o sotto il mio comando. Ringraziando Dio, le cose,
piano piano si stanno chiarendo. Almeno non si dirà che era dei miei".
E' chiaro anche ad un bambino. Capire dove Troiani abbia preso quelle
molotov significa forse rispondere per sempre alla domanda su chi e perché
truccò le carte.
(5 luglio 2002)
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è ricercando l'impossibile che l'uomo ha sempre realizzato il possibile
Coloro che si sono saggiamente limitati a ciò che appariva loro come
possibile non hanno mai avanzato di un solo passo