[Cerchio] Nuovi percorsi per l'anarchismo

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Autore: magius
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Oggetto: [Cerchio] Nuovi percorsi per l'anarchismo
Nuovi percorsi per l'anarchismo
di Thomas S. Martin
tratto dalla rivista Libertaria http://www.libertaria.it

* * * *

Il mondo futuro, qualsiasi forma dovesse prendere, non sarà frutto di una
netta rottura con il passato; la storia dopotutto è dialettica.

I nuovi sistemi si strutturano all’interno dei vecchi. Possiamo presumere
che la critica anarchica, rivolta agli errori strutturali della civiltà
occidentale, sopravviverà sotto altra forma.

Questo saggio azzarderà alcune previsioni sulle configurazioni che questa
critica potrebbe assumere. Dato che il cambiamento è ancora all’inizio e
prevedere il futuro è pratica notoriamente incerta, ciò che segue potrebbe
essere errato. Ma in qualche modo si deve pur iniziare.

Propongo che gli anarchici comincino a ripensare alcune delle loro idee
alla luce delle correnti e delle ricerche contemporanee nel campo della
fisica post-einsteiniana e della teoria dei sistemi. Negli ultimi vent’anni
molto è stato scritto su queste discipline limite. Buona parte è spazzatura
New Age, o, all’altro estremo, è accessibile solo agli specialisti. Ma molti
elementi di questa ricerca sono direttamente rilevanti per il pensiero
radicale. Quello che la fisica e la teoria dei sistemi suggeriscono sulla
natura della realtà è totalmente estraneo all’esperienza quotidiana del
pensiero occidentale e per questo non dovremmo sorprenderci se risultasse
priva di senso. Probabilmente parte di essa lo è. Ma è fuori di dubbio che la
visione del mondo occidentale, condivisa anche dall’anarchismo, sia basata su
una serie di premesse palesemente false. Il fatto è che i fisici e i
cosmologi ci stanno trascinando, volenti o nolenti, verso una frontiera che
pochi di noi sono disposti a superare. Come è noto, il libro di Thomas Kuhn
La struttura delle rivoluzioni scientifiche descrive i «cambiamenti di
paradigma», ovvero quelle periodiche trasformazioni nel modo di rapportarsi
al mondo che scandiscono la storia, creando nuove premesse fondamentali che
sono «incommensurabili» con le vecchie. Il termine paradigma viene usato da
tutti, e il fatto che se ne siano impadroniti i capitalisti delle
multinazionali per descrivere il prossimo passo della loro conquista globale
è particolarmente irritante. Ciò nonostante, il termine sembra essere
appropriato, e i «radicali» dovrebbero riappropriarsene. A dire la verità
Kuhn descrive cambiamenti secondari: la caduta dell’impero romano, il
collasso delle teorie medioevali, la cosiddetta rivoluzione scientifica del
diciassettesimo secolo. Sono stati mutamenti profondi, ma non fondamentali.
Hanno tutti avuto luogo entro il contesto di base della cultura occidentale,
così come è stato costruito in Mesopotamia alcune migliaia di anni fa. Nel
linguaggio dei sistemi essi sono stati «confermativi» piuttosto
che «innovativi», cioè non hanno indebolito la visione del mondo su cui si
reggevano, ma l’hanno piuttosto potenziata. Quello che osserviamo oggi,
invece, è forse l’inizio del primo cambiamento sostanziale di paradigma dai
tempi della rivoluzione neolitica. Non sono esistiti molti paradigmi
fondamentali nella storia umana. Quello cinese è più resistente e stabile
del nostro. Il paradigma olistico-animistico condiviso dalle popolazioni
indigene di tutto il mondo può ancora essere d’aiuto, se non lo distruggeremo
prima. I paradigmi sono sistemi dinamici della coscienza umana, sono
inerentemente conservatori e autosufficienti; una volta certi che uno di essi
funziona, non lo abbandoniamo più. La nostra sanità mentale e la nostra
sopravvivenza, infatti, si basano sulla verità del nostro particolare
paradigma. Ecco perché i paradigmi sono così difficili da rimuovere, anche se
sono chiaramente nocivi. Le crisi del ventesimo secolo e in particolare gli
impulsi ecocidi del tardo capitalismo, hanno spinto il paradigma occidentale
verso la sua fine. Tutto è in procinto di crollare, compreso l’anarchismo. Se
riusciamo a sopravvivere e a modellare un nuovo paradigma, l’anarchismo come
lo conosciamo sembrerà antiquato e inutile come la scrittura cuneiforme.

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Anarchismo,
teoria dei sistemi e nuova fisica

Il primo passo verso un atteggiamento mentale post-occidentale è lo studio
della fisica come si presenta dopo gli sviluppi inaspettati di Albert
Einstein. Più di un osservatore ha notato che la fisica, la religione, la
psicologia e anche la linguistica stanno convergendo verso una spiegazione
generale dell’universo che assomiglierà poco al modello che tutti noi
studiamo a scuola, la visione del mondo creata secoli fa da quella profana
trinità di Francis Bacon, René Descartes e Isaac Newton. I nuovi ingredienti
sono l’olismo e la filosofia del processo, sviluppate da Henry Bergson,
Alfred Whitehead e da molti altri; la meccanica quantistica con i suoi
misteriosi paradossi, l’indeterminazione di Werner Heisenberg e i principi di
esclusione di Wolfgang Pauli; pochi altri modelli tanto radicali da sfidare
le classificazioni: in particolare le ricerche di Gregory Bateson, Rupert
Sheldrake, e Ilya Prigogine. Alcuni anarchici ne hanno già intravisto le
implicazioni. Murray Bookchin si distingue tra la massa principalmente perché
sottolinea i potenziali anti-libertari nelle opere di scienziati non molto
interessati alla teoria politica. Non è necessario soffermarsi qui su una
discussione approfondita della meccanica quantistica, della teoria dei
sistemi o dei loro rapporti. Le loro implicazioni radicali si possono
riscontrare nel lavoro di Fritjof Capra, Morris Berman, Timothy Ferris e
altri. Possiamo quindi andare al dunque: le recenti teorie di David Bohm e di
Geoffrey Chew e le loro implicazioni per un anarchismo post-occidentale.

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L’idea che la realtà possa essere ridotta a un «campo» di qualche tipo (nel
quale gli oggetti sono modellati dall’ambiente esterno, e a loro volta lo
rimodellano) non è nuova, ma David Bohm ha suggerito un campo «olografico» in
cui ogni settore contiene il complesso del campo stesso.
La nostra idea (presa dalla matematica classica) che tutto possa essere
localizzato in un «punto» dello spazio e del tempo diviene priva di senso.
Secondo Bohm l’ordine e il caos che percepiamo nel regno della fisica sono
epifenomeni dell’«ordine implicito», una struttura che è il fondamento di
tutte le strutture e tutti i sistemi e che non è direttamente accessibile
alle nostre menti. L’ordine implicito, trascendente e olografico, include
tutti i potenziali oggetti ed eventi. E soprattutto è vero, mentre il
nostro «mondo reale» è solo l’effetto di superficie di quella realtà: gli
oggetti sono astrazioni, sono «sottototalità relativamente indipendenti»,
come vortici in una corrente. La coppia di errori più grandi e pericolosi che
l’anarchismo condivide con altre filosofie occidentali sono quelli che per
comodità chiamerò «dicotomia», ovvero lo smembramento del mondo in parti che
esistono solo nella nostra mente, e la «reificazione», cioè credere che
queste parti siano fondamentalmente reali. Il nostro modo di vedere entità
separate dove ci sono solo unità inscindibili è la causa dei tanti problemi
della civiltà occidentale e potrebbe invero rivelarsi la fine per noi tutti.

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La «teoria bootstrap» di Chew è così rivoluzionaria da poter essere
considerata al di là della linea paradigmatica, non come l’ultimo modello
occidentale di fisica, ma come il primo post-occidentale. Si basa
sulla «teoria S-matrix», un modello matematico dell’universo proposto per la
prima volta da Heisenberg nel 1943 per spiegare la forte interazione degli
adroni a livello subatomico. La «teoria S-matrix» suggerisce che i modelli di
movimento delle particelle non siano veramente essenziali: essi hanno origine
dalla tendenza di quelle particelle a comportarsi in un certo modo. Secondo
Chew l’unica possibile spiegazione del successo della «teoria S-matrix» è che
la materia non esiste per nulla e che l’universo è una «serie di eventi
dinamici e intercorrelati. Nessuna proprietà delle diverse parti di questa
trama è essenziale, esse derivano tutte dalle proprietà delle altre parti. È
la coerenza globale delle loro reciproche interrelazioni a determinare la
struttura dell’intera rete». In questo modello tutte le leggi, fisiche,
chimiche o storiche, sono costruzioni puramente umane, che la nostra mente
impone alla realtà che va al di là della nostra comprensione. Le strutture e
i processi sono «coerenti» in sé e tra loro, ma non lo sono rispetto a un
qualche principio fondamentale che si ponga «fuori» dai processi stessi.

L’ipotesi «bootstrap» fa crollare l’intero progetto della filosofia
occidentale, il cui obiettivo è di rivelare i principi ultimi che regolano
il funzionamento delle cose: si tratta di una ricerca che oggi ci appare come
un tuffo in un pozzo senza fondo. Invece di perdere il nostro tempo a cercare
postulati fondamentali, dovremmo seguire l’esempio dei mistici, che ricercano
una intuizione diretta piuttosto che una comprensione razionale. Questa
intuizione deve essere adottata dall’anarchismo post-occidentale per
comprendere direttamente e intuitivamente quale ruolo abbiamo nel mondo. La
nuova fisica si accorda con le opinioni «primitive» delle popolazioni
indigene meglio di quanto faccia con ciò che esce da un qualsiasi seminario
universitario o da un acceleratore di particelle. Lo sciamano dei Pueblo,
nella sua polverosa kiva, sul funzionamento del mondo sapeva molto di più di
Robert Oppenheimer rinchiuso nel suo laboratorio di Los Alamos. L’ossessione
occidentale di ammazzare, espropriare, convertire e nascondere le popolazioni
indigene è ora più facile da comprendere. Loro conoscevano la verità, mentre
noi ci ostinavamo a vivere nella menzogna: non riuscivamo a guardarli in
faccia. Il mondo post-occidentale, qualunque forma assumerà, dovrà accostarsi
umilmente, supplicando, al selvaggio dipinto, al mangiatore di mescal che una
volta disprezzava. Gli anarchici giustamente disdegnano le «filosofie» New
Age e le considerano chiacchiera confusa e superficiale dettata
dall’egocentrismo del tardocapitalismo. Ma non dobbiamo gettar via il bambino
con l’acqua sporca. Le popolazioni indigene hanno veramente qualcosa di
profondo da insegnarci.

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Tutte queste diverse idee si uniscono in modo affascinante nella teoria dei
sistemi, prodotta dal contributo di cibernetica, fisica dei quanti, teoria
del caos, e molte altre discipline. La teoria dei sistemi non è cosa nuova,
ma è stata accettata molto lentamente per ragioni più politiche che
scientifiche. Un «sistema» è un aggregrato di elementi correlati, la cui
identità non è data dalla natura dei componenti, ma da quella delle loro
relazioni dinamiche. Inoltre la teoria assume che nessun elemento del sistema
sia autonomo; tutti sono «oloni» (il termine è di Arthur Koestler), ovvero
sono fenomeni che sono simultaneamente parte del tutto. È un altro modo di
dire che il tutto è maggiore della somma delle sue parti, un concetto molto
antico. Molti anarchici obietteranno che la teoria dei sistemi è pregiudicata
dalla sua abitudine a descrivere le interconnessioni in termini di gerarchia.
Il punto è centrato, sebbene sia basato sulla fusione tra due fenomeni
abbastanza dissimili che portano lo stesso nome. Una gerarchia sociale o
politica è una creazione umana fittizia, che fa violenza all’ordine naturale
delle cose. Le gerarchie dei sistemi sono naturali per definizione, ma
probabilmente sarebbe meglio pensarle come trame, come reti. Possono essere
visualizzate come orizzontali, piuttosto che verticali, eliminando i valori
impliciti di termini quali alto o basso, senza compromettere la sostanza
della teoria stessa. Dalle origini della teoria dei sistemi, giudicata
meccanica e cibernetica, sorge un’altra valida obiezione. Il linguaggio dei
sistemi tende ancora a trattare i fenomeni sociali e culturali come se questi
si comportassero come strutture chimiche o fisiche. Questo richiama alla
mente il riduzionismo e il meccanicismo a cui ci si dovrebbe opporre.
Sfortunatamente la teoria dei sistemi è in gran parte un prodotto della
ricerca bellica della seconda guerra mondiale. Fu inventata, come i computer
e la teoria dei giochi, per facilitare l’eliminazione di un numero sempre
maggiore di persone. L’idea sta perdendo questa connotazione tipica dei suoi
inizi, ma nella mente popolare la parola «sistema» ha ancora una connotazione
scientifica e capitalistica. Entrambe queste critiche possono essere superate
con un’accurata attenzione alla terminologia e con la consapevolezza che la
teoria dei sistemi, come molto altro, possa essere utilizzata per scopi buoni
o cattivi.

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La teoria dei sistemi iniziò a prendere forma negli anni Venti, quando i
fisici provarono la falsità della visione newtoniana dell’universo, quale
collezione di oggetti separati tra loro. L’inaugurazione dell’«era dei
quanti» fu la prima incrinatura nei fondamenti del paradigma occidentale.
Filosofi, matematici, biologi e molti altri scienziati dovettero
riconsiderare la loro idea del mondo come una grande macchina che poteva
essere compresa con l’analisi delle sue varie parti costituenti. Mentre si
giungeva a una più profonda verità, ciò che prima era dogma divenne
mero «meccanicismo» e «riduzionismo»: i fenomeni devono essere intesi come
degli insiemi dinamici; quando li si riduce alle loro parti costituenti non
possiamo ottenere un loro quadro accurato. Tutte le scienze tradizionali sono
allora state considerate utili solo per descrivere la struttura dei fenomeni;
per spiegare la loro funzione occorreva invece una nuova metodologia. Si
dovette sostituire «il mondo come macchina» con «il mondo come sistema».
Da questo iniziale cambiamento si sviluppò un gruppo di nuove discipline che
non riuscirono a inserirsi nelle vecchie categorie: la semiotica,
le varie forme di strutturalismo, la teoria dei giochi e della decisione, la
cibernetica, la logica fuzzy e cose del genere.

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Gli eterni quesiti filosofici, come il problema mente-corpo, l’oggettività,
la contrapposizione tra il determinismo e il libero arbitrio e quella tra il
meccanicismo e l’organicismo, cessarono di avere significato. Abbiamo
cominciato a capire che quando manca una risposta soddisfacente,
probabilmente c’è qualcosa che non va nella domanda. Senza dilungarsi oltre,
è ora ovvio che la nostra intera concezione del mondo è basata su una
risposta stupendamente falsa alla domanda «cos’è la realtà?». Come ha fatto
la filosofia occidentale, che si basa su una tecnologia e una scienza
vincente e omnicomprensiva, a cadere in un errore tanto grave? E come
potevano le popolazioni indigene primitive, con i loro sciamani che ballavano
intorno al fuoco e indossavano stupide maschere, essere così nel vero sul
funzionamento della fisica e della cosmologia? La risposta non è difficile o
arcana. Un’appropriata comprensione della natura dell’universo, dei suoi
sistemi, della sua indeterminatezza, del suo olismo, è un processo di
adattamento, che si evolve seguendo i successi della razza umana. Se i nostri
antenati non l’avessero capito, non saremmo mai scesi dagli alberi.
Analogamente, la nostra civiltà moderna ha stabilito le sue gerarchie e ha
imparato a controllare la natura (incluse le persone) precisamente perché
alcuni uomini hanno dimenticato ciò che l’evoluzione aveva loro insegnato.
Grazie all’eccezionale flessibilità delle nostre menti (e delle nostre mani),
siamo stati in grado di continuare quest’opera di aberrazione per molte
migliaia di anni. Ma nella fisica come nell’evoluzione tutto deve avere una
controparte, ci vuole un riequilibrio della bilancia. La sintropia si paga
con un incremento dell’entropia. Si è chiesto un prestito, e ora bisogna
pagare le rate.

Il prezzo potrebbe essere altissimo: l’annientamento della nostra specie. La
prima rata è già stata pagata sotto la forma dei sistemi totalitari del
nostro secolo, con le loro politiche di genocidio ed ecocidio, senza parlare
delle guerre più distruttive della storia umana, nonché dell’attuale tasso di
estinzione delle specie, senza precedenti nel passato. Gli anarchici non
hanno adeguatamente affrontato il significato della storia del ventesimo
secolo. Servendosi delle nuove metodologie di comprensione del mondo, si
dovrebbe tuttavia capire, se si vuole andare avanti, che cosa sostenere o
rifiutare. La visione occidentale del mondo ci ha lasciato molti bagagli
inutili e ad alcuni siamo molto legati. Ciò nonostante, dovremo abbandonarli.

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Dicotomia e reificazione

Che cosa dovrebbero esattamente ripensare gli anarchici alla luce della nuova
fisica e della teoria dei sistemi? La lista è già molto lunga e promette di
allungarsi ulteriormente. Qui considereremo solo due delle illusioni
occidentali che dovrebbero essere corrette: la dicotomia e la reificazione.
Sono connesse l’una con l’altra e penso siano le più importanti. Il
termine «dicotomia» ha origine da una parola greca che significa «tagliare in
due», e ora è spesso usata per indicare la costruzione di false barriere che
separano due o più cose in realtà unite. La dicotomia occidentale più
pericolosa, già identificata dagli ecologi sociali, è quella tra physis
(natura, realtà fisica) e nomos (legge, ordine stabilito dagli uomini). Il
pensiero occidentale separa gli esseri umani (almeno i migliori) dal resto
della natura. Questa convenzione risale probabilmente all’invenzione
dell’agricoltura e all’incivilimento, ma non fu descritta in termini
filosofici o teoretici fino al tardo periodo presocratico in Grecia.
Nell’Antigone di Sofocle, il tema centrale analizza il conflitto tra la legge
umana e le pretese degli dei. Il sofista Antifone, a volte considerato un
proto-anarchico, dichiara che l’interesse personale è la legge base della
natura. Le leggi della società richiedono invece di sottomettersi al bene
della comunità, e sono quindi contro natura. Platone si occupò di questa
interessante dicotomia nella Repubblica e in altri dialoghi, rendendola la
caratteristica centrale e permanente della filosofia occidentale.

Non si è sicuri su chi utilizzò per primo i termini physis e nomos in
opposizione l’uno all’altro. Tutti i filosofi dell’età classica si
pronunciarono però sull’argomento. Una serie di regole (nomos) si applica a
noi, l’altra (physis) al resto del cosmo. Questo è un buon esempio di quello
che i Greci usavano chiamare hubris (arroganza), anche se non ne capivano
l’ironia. La dicotomia presocratica tra physis e nomos fu probabilmente il
primo e il più forte cambiamento confermativo all’interno del paradigma
occidentale. Separandosi dal mondo, la cultura occidentale si arrogò il
diritto di comandare, manipolare, sfruttare e forse anche distruggere quel
mondo. Nella scienza tutto questo produsse l’universo a orologeria di Newton.
Il risultato finale fu la famosa osservazione Oppenheimer: «Al diavolo la
vostra etica. Questa è grande fisica». Nella religione produsse la
distinzione fatta da Agostino tra l’eterea Città di Dio e la fogna nota come
Città dell’Uomo. Dio è considerato esterno all’universo, anche se prima di
andarsene concesse ad Adamo ed Eva (che erano logicamente europei bianchi) di
fare quello che volevano. Sino a poco tempo fa nessun serio sistema etico
aveva discusso questa dicotomia di base. Anche gli anarchici classici
ritenevano che l’uomo dovesse conquistare la natura. Il biocentrismo (o
meglio l’ecocentrismo) dell’ecologia profonda è il primo segno che
l’opposizione tra physis e nomos sta venendo meno.

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Se sosteniamo che tutte le dicotomie sono false, da ciò consegue
immediatamente che ne ritroviamo una in tutti i paradossi e in tutte le
contraddizioni. Se diciamo «tutte le dicotomie», concludiamo con il suo
contrario (olismo, unità?) e questa è di per sé una dicotomia. E «falso»
presuppone «vero»: eccone un’altra. Non è difficile capire perché nascano
tutte queste incongruenze. La struttura della logica e della ragione
occidentale, implicita nelle nostre lingue indoeuropee (specialmente greco e
latino) ci rende incapaci di parlare di qualcosa o di pensarla senza
utilizzare dicotomie. Questa struttura logica è uno dei primi componenti del
nostro paradigma culturale, forse è anzi la sua pietra di fondazione. È quasi
del tutto impossibile cercare di operare senza usarla. Fino a ora solo i
fisici quantistici, i mistici e alcuni filosofi che hanno utilizzato un modo
di ragionare dialettico sono riusciti a farlo, ma anche loro non riescono a
convertire i loro pensieri in un linguaggio comprensibile a tutti. Chi scrive
non è così vanitoso da pensare di riuscire a fare di meglio.

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La difficoltà dell’impresa non può però essere addotta come scusa. Si
dovrebbe rigettare questa dicotomia e tutto ciò che vi è connesso. Si
potrebbe scegliere di essere filosofi puri, e quindi considerare la questione
da un punto di vista cosmologico; ma potrebbe essere meglio lasciare da parte
per il momento questa possibilità per concentrare l’attenzione sul nostro
pianeta e le nostre specie. Abbiamo una sola ecosfera ed è questa la cosa più
importante. Il sistema sociale o politico che non riesce a riconoscerlo non
può essere considerato genuinamente libertario. Tutte le dicotomie sono
false, inclusa quella tra la dicotomia e l’olismo. Qui l’anarchismo ha un
vantaggio: è inerentemente dialettico, si oppone ai confini e alle barriere
ed è flessibile. Come in tutte le filosofie occidentali, c’è una certa
tendenza al dogmatismo, ma gli anarchici almeno ne riconoscono i pericoli. Si
deve iniziare a considerare seriamente quello che intendeva Lev Tolstoj
quando sostenne che la regola aurea era l’unica legge di cui l’umanità avesse
bisogno. Ascoltare ciò che Pëtr Kropotkin aveva da dire sui vantaggi della
cooperazione sulla competizione e ciò che Bookchin afferma sull’unità degli
uomini con la natura. Gli anarchici hanno già assorbito molto dall’ecologia,
dal femminismo e dalle tradizioni non-occidentali: questa tendenza deve
continuare. Quello che non hanno ancora fatto è guardare ai nuovi sviluppi
nelle scienze matematiche e nel regno della psicologia. Senza cadere nelle
trappole della New Age o dell’ecofascismo. La strategia sta nel tener ben a
mente tutte le falsità di tutte le dicotomie. La cosa successiva da fare è
mettere in discussione il progetto centrale di reificazione degli
occidentali: cosa più difficile da un punto di vista teorico. Il mondo è
fatto di processi, non di cose: a questo deve adattarsi la strategia
anarchica. Suggerisco che il punto dal quale partire sia una completa analisi
anarchica del linguaggio.
Si dovrebbe sapere di più sulle lingue non-occidentali, su come esse
organizzano la realtà nelle menti di coloro che le parlano. Non voglio dire
che l’anarchismo salverà il mondo imparando il nootka, ma è essenziale essere
consapevoli del ruolo primario delle lingue per la conoscenza e la coscienza.
Non si cambierà il mondo senza cambiare il modo in cui la gente pensa, e
questo non succederà senza mutare la lingua in cui essi pensano. Al livello
più semplice molto lavoro è già stato fatto: ora comprendiamo la
discriminazione tra i sessi implicita nella lingua inglese e nelle sue
cugine. Sappiamo che la connotazione negativa della parola «nero» ha
contribuito al razzismo. Sull’altro versante, Noam Chomsky ha studiato la
grammatica comune a tutte le espressioni linguistiche; non è un caso che il
maggior filosofo del linguaggio del mondo sia anche anarchico. Ma ci sono
molte altre strade da esplorare. L’etimologia è relativamente accessibile a
tutti. Un esempio: la parola consciousness (coscienza) ha una grande varietà
di usi contraddittori, sia nella lingua di tutti i giorni sia in quella
tecnica. La radice viene dal latino scire (conoscere), che non aiuta molto
finché non andiamo a riguardare l’indoeuropeo skei- (tagliare,
dividere).Questo verbo riguarda oggetti che sono stati tagliati da un corpo
più grande. L’irlandese scìan (coltello) è un cugino, come lo sono anche
schism (scisma), schizoid (schizoide), shed (spartiacque), shield (scudo),
sheaf (fascio) e anche shit (merda). Se skei- ha attinenza con sek-, come
pensano i paleolinguisti, allora altri cugini sono scythe (falce), sword
(spada), skin (pelle) e una grande famiglia di parole latine che derivano da
secare, come anche sassone, ovvero «un guerriero con un coltello». La
connessione profonda e inconscia tra conoscere e tagliare è di grande
importanza per il pensiero occidentale. Fin dall’inizio conoscere qualcosa
significa separarlo dalla massa indifferenziata della realtà, tagliarlo,
isolarlo, strapparlo dal posto che occupa nell’ordine olistico. Data questa
inconscia connotazione di «conoscere», come poteva la nostra cultura evitare
la dicotomia e la reificazione?

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In breve, si potrebbe bandire la reificazione se acquistassimo più coscienza
del potere e della grande fluidità del linguaggio. Dobbiamo essere in grado
di guardare la nostra tazza di caffè e capire che la sua oggettività separata
è in gran parte un prodotto del nome reificante che utilizziamo per
descriverla.
Forse una delle ragioni primarie dell’insuccesso dell’anarchismo
nell’attrarre l’attenzione del mondo è la sua inappropriata comprensione
della reificazione. L’ideologia si oppone allo sfruttamento e al dominio, al
mettere l’etichetta del prezzo su tutto, alla generalizzazione e allo
stereotipo. Sostiene la cooperazione e l’interconnessione, il rispetto e
l’accettazione. Ma è sostanzialmente incapace di giustificare perché
sostiene questi valori. Se lo scopo è mettere fine al dominio di una persona
sull’altra, o degli uomini sulla natura, bisognerebbe dimostrare la fallacia
della reificazione. Scegliamo una manciata di processi dal grande flusso e
gli diamo un nome: così facendo creiamo l’Altro. L’errore della reificazione
sta nell’indicare un «quello», un «lui», una «lei» come se fossero Altro da
Noi. È questo il fondamento di ogni ideologia, di ogni dicotomia e di ogni
credenza nel fatto che «Noi non siamo Loro». E questa è anche la
giustificazione per tutte le forme di dominio.

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I DIRITTI DELL’ECOSISTEMA

Quali sono le implicazioni per un anarchismo inteso come un progetto vivo e
dinamico? Anche nei suoi stadi contemporanei, il paradigma post-occidentale
implica alcune difficili concessioni. La prima, la più dolorosa, è il
concetto di autonomia individuale, insieme a tutti i suoi corollari. Quelli
che una volta erano considerati diritti individuali dovranno essere
riconosciuti come diritti dell’ecosistema. Noi li possediamo non perché siamo
degli individui, ma perché facciamo parte dell’universo olistico. Confronto
ad altri sistemi sviluppati dal liberalismo o dal socialismo ottocenteschi,
l’anarchismo è più preparato per affrontare questo cambiamento. Altre
ideologie si focalizzano sull’autonomia individuale o sulla comunità
indifferenziata; solo l’anarchismo si avvicina al modello che permette
l’esistenza di un individuo libero all’interno di una autentica comunità. È
possibile migliorare questo modello, sia nella teoria sia nella pratica,
incorporandovi i concetti post-occidentali. Per ora gli approcci più
promettenti sono quelli di filosofi come Kenneth Goodpaster, Christopher
Stone, Tom Regan e Peter Singer, che si interessano in primo luogo
ai «diritti» degli animali e di altre entità non umane. L’idea che gli
individui abbiano dei diritti inalienabili è chiaramente un concetto umano,
incomprensibile e irrilevante per le vacche, le lumache di mare e le petunie.
Allo stesso tempo è chiaro che tutti gli esseri viventi condividono con noi
certi interessi quali la sopravvivenza, la riproduzione, la libertà dal
dolore, e che gli anarchici fondano la definizione di diritti proprio su
questi interessi. L’enigma che ne segue non trova soluzioni all’interno dei
confini del pensiero occidentale. Quindi ci si deve rivolgere altrove per
trovare risposte radicalmente nuove. Non si può sapere cosa se ne conseguirà,
ma gli anarchici faranno meglio a starci molto attenti.

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In secondo luogo, si deve rendere l’anarchismo sia post-ideologico sia post-
occidentale. Si potrebbe cominciare dall’abbondanza di letteratura esistente
su cosa significa essere post-ideologici. La maggior parte di essa deriva
dal decostruzionismo ed è perciò piuttosto oscura e pretenziosa, ma forse si
è sulla strada giusta. Si potrebbero anche considerare i principi del
bioregionalismo, della risoluzione di mediazione e conflitto, delle
cooperative, della politica dell’identità, della medicina olistica, e persino
quelli degli hackers, nonché di altri concetti del genere orientati a
migliorare la qualità della vita quotidiana senza l’aiuto del governo.
Comunque la strategia antideologica più promettente ha profonde radici nella
storia dell’anarchismo. È il principio della grandezza della comunità. Se
pensiamo alle società umane (siano esse cooperative alimentari di quartiere o
imperi) come a sistemi in equilibrio dinamico, diviene evidente che il modo
in cui sono organizzate ha meno importanza, per la loro sopravvivenza a lungo
termine, della loro dimensione. Gli «zappatori» e William Godwin capirono
questo principio e così fecero la maggior parte degli anarchici classici.
Anche oggi si dà molta importanza alla grandezza ideale di una comune, di una
collettività, insomma dell’unità base della società anarchica. Cosa direste
se doveste intervenire in un dibattito e il gruppo fosse troppo ampio? Una
delle regole di base della società occidentale è che «grande è bello» e gli
anarchici l’hanno respinta molti anni fa. Ma l’anarchismo è pur sempre
un’ideologia e ha sempre affrontato il problema della dimensione come un
problema ideologico. Ovvero, ci si preoccupa più di sapere se l’unità
politica è capitalista, marxista o fascista, che di sapere se è grande o
piccola.

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Nel mondo post-occidentale potremo trovare comunità di nazisti, di satanisti,
di repubblicani: ma che pericolo ci sarà se nessuno verrà costretto a farne
parte e se esse saranno troppo piccole e decentrate per minacciare tutti gli
altri? Hakim Bey (Peter Lamborn Wilson) ha persino affermato che la monarchia
non è necessariamente incompatibile con l’anarchismo. Questo genere di
elaborazioni sicuramente allarmerà molti anarchici, ma bisogna essere di
ampie vedute.
La teoria dei sistemi è un valido aiuto. Tutti i sistemi sono correlati e
interconnessi con altri, in una rete complessa che si estende dall’ecologia
di una pozza d’acqua alle più lontane frontiere dell’universo. I sistemi
individuali primari tendono comunque a essere molto semplici. Se hanno pochi
elementi non durano molto; se ne hanno troppi crollano sotto il loro stesso
peso, producendo spesso danni gravi. Una dimensione ideale che crea le
maggiori possibilità di stabilità e di longevità esiste. I sistemi sono
destabilizzati dalla presenza di «attrattori caotici», ovvero elementi non
previsti che non si armonizzano con il resto del sistema e tendono a fargli
perdere equilibrio. Un numero sufficiente di questi attrattori possono
distruggere tutto il sistema. Più questo è grande e più è propenso alla
distruzione. L’odierna disintegrazione della civiltà occidentale è un esempio
calzante. Questo non è un argomento contro la diversità e in favore
dell’uniformità. Infatti, più un sistema è diversificato e più è stabile:
questa intuizione è il grande contributo della scienza ecologica alla teoria
politica. Stiamo parlando di quantità, non di qualità. La generazione di
anarchici successiva dovrà risolvere questo insieme di idee piuttosto
complicato. Quelli di oggi non ci riescono perché non possono pensare senza
utilizzare dicotomie e reificazioni, ma forse quelli che verranno potranno
fare di meglio.
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In terzo luogo, bisogna prendere seriamente in considerazione l’idea di
uguaglianza. Questo significa opporsi a tutti i movimenti o le tattiche che
separano o alienano le persone l’una dall’altra: il razzismo, la
discriminazione sessuale, il bigottismo in tutte le sue forme, lo sciovinismo
sia maschile sia femminile, ogni situazione elitaria, dai bagni dei dirigenti
alle confraternite dei college. Anche la distinzione tra anarchici e non
anarchici è un errore. I governi e le élite di potere sanno che svanirebbero
come la rugiada in una mattina d’estate se utti all’improvviso cominciassero
a pensarsi uguali. «Dividi per dominare» è la regola numero uno del bigino
dell’establishment. Si devono distinguere e quindi combattere tutte le
distinzioni di classe, ed evitare ciò che artificiosamente separa una persona
dall’altra. Chiedete a un proprietario di una Cadillac perché guida una
macchina così costosa e pretenziosa in un mondo di povertà e di risorse
energetiche in diminuzione, e la risposta probabilmente sarà per «comodità»
e «affidabilità», come la pubblicità l’ha istruito a fare. La sfida sta nel
riuscire a rivelare a tutti le vere motivazioni che stanno dietro alle cose.
Andare ad Harvard è fantastico, ma non si deve pensare di essere «migliori»
di una matricola di una università minore. Leggete Thorstein Veblen quando
parla della «classe agiata». Il suo stile è un po’ rigido e il suo spirito è
troppo sottile per molti, ma ha ragione. Sicuramente devono essere poste
molte altre questioni. Come potrà l’anarchismo post-occidentale incorporare
la teoria dei sistemi nella sua pratica educativa, nella sessualità,
nell’arte e nella musica, nell’azione diretta, nell’effettiva democrazia,
negli stati di coscienza alternativi? Tutto ciò potrà essere attuato se
l’’anarchismo accetterà il compito di spiegare perché la natura della realtà
e della coscienza non permette l’oppressione di un essere umano sull’altro.
La sua prassi sarà di definire le relazioni umane in modo da assicurare la
cooperazione, la produttività e la crescita senza l’esercizio del dominio.
Per raggiungere questo scopo l’anarchismo dovrà adattarsi a nuove discipline
(non solo all’ecologia, ma anche alla fisica e alla psicologia), e integrarle
al suo interno.

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I sistemi complessi e dinamici funzionano meglio quando il coro canta
all’unisono. Questo non significa un grigio conformismo, come sarebbe sotto
il gerarchico e meccanicistico paradigma occidentale, ma implica piuttosto
una dialettica vigorosa di idee in movimento. Per questo gli anarchici devono
sostenere lo sfaldamento delle tradizionali frontiere fra le discipline
intellettuali; questo sta già avvenendo e gli anarchici sono rimasti
indietro. L’anarchismo del futuro sarà, come immaginò Kropotkin, una
completa e coerente visione ecologia e scientifica del mondo, non solo
un’ideologia politica. Devono essere gli anarchici, e non i fisici e gli
ecologi, a stabilire ciò che questo significa.