著者: Tuula Haapiainen 日付: 題目: [Cerchio] la serva serve
faccio un po' di pubblicità volontaristica a questo libro di derive approdi
che è scritto da
Cristina Morini, con introduzione Salvatore Palidda.
E' una cosa che vado pensando da molto tempo..l'ingiustizia che continua
anche per mano delle donne. Cioè, che la liberazione delle donne
italiane/europee dalle incombenze della cura debba passare attraverso lo
sfruttamento delle altre donne..
buona giornata a tutt*
e abbracci Tuula
La serva serve
Le nuove forzate del lavoro domestico
Euro 9,30
Chi sono le nuove forzate del lavoro domestico? Chi accudisce anziani
abbandonati dalle loro famiglie? Chi lava i panni sporchi di casalinghe
ossessive? Chi intrattiene bambini viziati che ormai hanno tutto? Sono le
colf, le collaboratrici domestiche, le infermiere, le baby sitter emigrate
da paesi lontani e giunte in Italia per cercare di entrare nel dorato mondo
del lavoro occidentale.
Sono donne straniere, spesso clandestine, che svolgono lavori umili in un
ambiente famigliare. Spesso sono laureate, hanno viaggiato, parlano varie
lingue. Vengono catapultate nelle grandi città italiane, non per questo meno
provinciali, diventando ostaggio delle famiglie per cui lavorano.
Le donne immigrate protagoniste di questo libro svelano la frustrazione del
loro lavoro, i dolori e le sofferenze che subiscono quotidianamente. Gettano
uno sguardo intimo e disincantato sulle famiglie italiane, sui loro
"padroni" e ci rendono partecipi di una condizione umana e lavorativa sempre
più diffusa. Un libro dedicato a tutti quelli che hanno una "serva".
Prefazione
Il cliché della migrante: colf o prostituta
di Salvatore Palidda
Quasi tutte le descrizioni giornalistiche e anche sociologiche dell'
immigrazione in Italia hanno accreditato l'idea che una parte rilevante di
questo "fenomeno", per la prima volta nella storia, sarebbe costituita da
donne. Filippine, innanzi tutto, ma ora anche nigeriane, albanesi e donne
dei paesi dell'Est, che sarebbero venute qui con la "vocazione" di fare le
colf o con quella di fare... le prostitute (per queste si arriva anche a
concedere che siano state costrette). In altri termini, ancor di più che per
gli uomini, l'idea dominante consiste nel descrivere la migrante di oggi
come la "povera disgraziata" che non può far altro che uno di questi due
"mestieri", quasi una sorta di subumani provenienti da mondi barbari e
quindi incapaci di capire la modernità e tanto meno la "post-modernità". La
variante umanitaria di questo cliché della migrante dice invece che possono
anche essere umane, generose, molto affidabili, che riescono a imparare
tante cose, che a volte sanno persino cucinare buone pietanze e che,
malgrado le stranezze tipiche dei popoli, "diciamolo tra noi", un po'
primitivi, sono anche cattoliche praticanti, insomma delle "buon selvagge"
che si civilizzano. Non a caso, alcuni cattolici cercano di accreditarsi, e
a volte ci sono ben riusciti, come i migliori selezionatori e governatori
dell'immigrazione, pratica che una parte della chiesa ha sempre svolto nella
storia delle migrazioni.
Non è la prima volta che le migranti siano descritte e classificate secondo
queste categorie negative e "positive". In realtà, le migrazioni di donne
"sole" sono sempre esistite e in certi periodi del XIX e del XX sec. hanno
avuto anche dimensioni "di massa". Il fabbisogno di manodopera femminile per
lo sviluppo di alcuni settori industriali e delle città impose anche il
reclutamento di massa di ragazze delle zone rurali "povere". Ancora negli
anni Cinquanta e Sessanta interi treni di ragazze di varie province italiane
partirono da Milano per le industrie tessili francesi e per altre fabbriche
svizzere, belghe e poi tedesche. Come racconta Danilo Montaldi, nello stesso
periodo, a Milano arrivarono migliaia di donne della "bassa", di venete,
emiliane, toscane, friulane e di altre zone. Dopo fu la volta delle terrone
del sud. Secondo l'opinione dominante di allora, queste donne se non
facevano le serve, le balie o più raramente le operaie, non potevano che
fare le prostitute. A scuola i figli di queste migranti si vergognavano di
far conoscere le origini della madre. Dal punto di vista della "scienza dell
'immigrazione", intesa come insieme di saperi finalizzati a selezionare,
disciplinare e sfruttare i migranti, oltre a essere trattate come
lavoratrici indispensabili per alcune attività produttive e per i servizi di
ogni genere e tipo, pubblici e privati, le migranti sono sempre state
preziose per la riproduzione sia di forza lavoro, sia di "carne da cannoni"
in quei paesi (come quelli americani o la stessa Francia) nei quali la
demografia nazionale è stata alimentata dall'immigrazione. La migrante è
stata quindi operaia, mamma, "angelo del focolare" che stabilizza e
contribuisce al disciplinamento dei migranti o che può anche restare al
paese di origine per lavorare e fare economia per la posterità di tutti. La
riuscita migratoria dipende infatti non solo o non tanto dalle qualità,
dalle capacità fisiche e dall'etica del migrante maschio, ma quasi sempre
dal ruolo che vi assume la donna, moglie, madre, sorella. E sono anche
frequenti i casi di grandi riuscite imprenditoriali delle quali il merito
principale è proprio delle donne anche se spesso non figurano in primo
piano.
Comunque, in tutta la storia delle migrazioni, che è la storia di tutte le
società, alla migrante non è mai stato riconosciuto il motivo più importante
della sua migrazione: l'aspirazione all'emancipazione non solo economica e
sociale, ma politica nell'accezione più completa, ossia l'emancipazione da
ogni subalternità, compresa, ovviamente, quella rispetto all'uomo. In
effetti, la migrante mostra, ancor più del migrante, che le migrazioni sono
un "fatto sociale totale". Maturando, consapevolmente o no, l'
insoddisfazione, l'insofferenza o la rivolta rispetto a tutto ciò che
costituisce la condizione sociale e umana (anche privata) nella società di
origine, la migrante inizia un processo di emancipazione che investe tutte
le sfere della sua esistenza. Al di là delle apparenze superficiali, al di
là di quanto racconta essa stessa usando spesso le categorie e le
tematizzazioni offerte o imposte dal dominante, la migrante si configura
come un soggetto sociale "sovversivo" che nessuno vuole riconoscere, né la
società di origine, né quella di arrivo. Non a caso viene spesso descritta
solo come un'emigrata o un'immigrata, cioè come un soggetto di fatto
mutilato delle caratteristiche più complesse e profonde proprie della
migrante, soggetto che invece è "ostico" e sfugge al disciplinamento. La
migrante è infatti un essere umano che non fa parte né della società di
origine, né di quella di arrivo e che nessun dominante accetta di
riconoscere come persona titolare di pari diritti dei cittadini di ogni
Stato. Come osservano Bourdieu e Wacquant, l'analista tanto capace quale è
stato A. Sayad, restituisce al migrante la funzione di analizzatore vivente,
in carne ed ossa, delle regioni più recondite dell'inconscio sociale.
"Sayad dimostra che il migrante è atopos, un curioso ibrido privo di posto,
uno spostato ["spaesato"] nel duplice senso di incongruente e inopportuno,
intrappolato in quel settore ibrido dello spazio sociale in posizione
intermedia tra essere sociale e non essere [aspetto studiato da A Dal Lago,
1999]. Né cittadino né straniero, né dalla parte dello Stesso, né dalla
parte dell'Altro, l'immigrato esiste solo per difetto nella comunità
d'origine e per eccesso nella società ricevente generando periodicamente in
entrambe recriminazione e risentimento. Fuori posto nei due sistemi sociali
che definiscono la sua (non)esistenza, il migrante, attraverso l'inesorabile
vessazione sociale e l'imbarazzo mentale che provoca, ci costringe a
riconsiderare da cima a fondo la questione delle fondamenta legittime della
cittadinanza e del rapporto tra cittadino, stato e nazione. La sofferenza
fisica e morale sopportata dall'e-migrante rivela all'etnografo che segue la
sua lenta e dolorosa metamorfosi in im-migrante, che l'incastro innato (cioè
natale) in una nazione e in uno Stato specifici risiede nei recessi più
intimi dell'organismo, in una condizione di quasi-natura, fuori dalla
portata della consapevolezza e del raziocinio, a cominciare dall'equazione
viscerale che la maggior parte delle società stabilisce tra nazionalità e
l'insieme dei membri nella cittadinanza.
Tentare di ricostruire il significato profondo delle migrazioni, e ancor di
più di quelle delle donne, è forse una delle sfide più difficili perché vuol
dire innanzi tutto decostruire tutto ciò che è falsato nelle stesse
narrazioni della migrante per far sbocciare la potenzialità sovversiva dell'
essere umano che oggi più che mai, spesso solo inconsapevolmente, aspira ad
un'emancipazione politica che può trovare spazio solo in una visione del
mondo libera dall'obbligo a subordinarsi alle appartenenze specifiche. In
effetti, oggi più che mai, le migrazioni delle donne incarnano questa
aspirazione e non a caso suscitano le reazioni più velenose e violente da
parte del patriarcalismo. La criminalizzazione che oggi colpisce
vigliaccamente le migrazioni, colpisce ancora di più le donne perché di
fatto si manifesta in molteplici sfaccettature. Il cliché secondo cui la
migrazione femminile oggi non può che essere ad alto rischio di
assoggettamento alle mafie che ne organizzano la tratta e lo sfruttamento,
vale quanto quello che descrive le donne originarie dei paesi islamici come
succubi del "velo", mentre le africane sarebbero schiave dell'infibulazione
o delle credenze magiche "selvagge". Ma tutte le belle anime "femministe"
che stanno nei governi dei paesi dominanti e nei loro dintorni e che si
strappano le vesti per le povere disgraziate immigrate si sono ben guardate
dal riconoscere che la principale causa del rischio di neo-schiavizzazione
delle migranti sta proprio nel proibizionismo che prevale nelle loro stesse
politiche migratorie e che è proprio questo che nega ogni possibilità di
emancipazione. E' proprio la politica proibizionista e di criminalizzazione
delle migrazioni che costringe le filippine o le peruviane a non poter far
altro che stare rinchiuse nelle cerchie legate alle parrocchie e costringe
anche le ragazze marocchine, algerine, tunisine, albanesi o nigeriane a
sfidare l'"inferno" della clandestinità e della subordinazione a chi offre
favori (l'uomo delle proprie origini che rischia di diventare protettore o
anche il "protettore" italiano, compreso a volte il poliziotto). Cercando
nelle storie di vita delle migranti le loro vere aspirazioni ci si può
accorgere che il lato oscuro della globalizzazione del liberismo è proprio
quel controllo sociale più o meno violento che nega in particolare alle
migranti le possibilità di emancipazione effettiva come reale possibilità di
migrare liberamente. Proprio come mostra rudemente Ken Loach nel suo fil
Bread and Roses (Pane e Rose), i sogni di riuscita della migrante si
infrangono contro la brutalità del liberismo o devono passare attraverso la
cruna delle molteplici violenze particolarmente riservate alle donne
migranti.
Selezione bibliografica
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Dal Lago A., Non-persone. L'esclusione dei migranti in una società globale,
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Dal Lago, A., a cura di, 1998, Lo straniero e il nemico. Materiali per un'
etnografia contemporanea, Genova, Costa & Nolan
Delumeau J., La paura in occidente, Torino, SEI, 1979
Foucault M., Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1976
Maluccelli, M. Pavarini M., Rimini e la prostituzione, "Quaderni di
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Mezzadra S., Petrillo A. (a cura di), 2000, Globalizzazione e Migrazioni,
Roma, ilmanifestolibri
Miranda, A., 1997, Pendolari di ieri e pendolari di oggi. Storia di un paese
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Signorelli, prefaz. all'ed. francese M. Roncayolo
Montadi, D. (1961): Autobiografie della leggera, Vagabondi, ex-carcerati,
ladri, prostitute raccontano la loro vita. Torino, Einaudi
Moulier Boutang, Y. , 1999, De l'esclavage au salariat.Economie historique
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Palidda, S., 2000, Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo
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Sayad, A., La double absence, Seuil, Parigi, 1999
Sayad, A., L'immigration ou les paradoxes de l'altérité, De Boeck,
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