[Cerchio] I: A proposito di articolo 18

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著者: lucia
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題目: [Cerchio] I: A proposito di articolo 18
Ricevo dalle RdB del Comune di Firenze ed inoltro.
Lucia
>
> Note sull'art. 18
> di Andrea Fumagalli
> (Università di Pavia)
> Può essere utile ricordare alcune affermazioni di esponenti dell'area
> dell'Ulivo e del centro-sinistra in tempi recenti.
> "Oggi la disciplina dei contratti a tempo indeterminato è troppo rigida.
> Perciò si fanno sempre meno contratti di questo tipo e dilaga la

precarietà.
> Se c'è una riforma complessiva del mercato del lavoro è possibile

discutere
> di tutto, anche dell'articolo 18". Così si espresso Enrico Morando, leader
> dell'area liberal-riformista dei Ds, ai tempi della sua candidatura a
> segretario dello stesso partito.
>
> "E' necessaria una maggior possibilità per le imprese di risolvere il
> rapporto di lavoro, con un congruo indennizzo per i licenziati", dichiara
> invece da tempo Pietro Ichino, docente di diritto del lavoro, tra i più
> influenti nella schiera di consiglieri dell'ex primo ministro D'Alema e

dei
> vertici sindacali.
>
> "Tra i freni che causano il 'nanisno statico' delle imprese c'è lo Statuto
> dei Lavoratori perché ogni soglia (come quella dei 15 dipendenti) produce
> un'effetto soglia che è sciagurato", afferma Luigi Spaventa, oggi

presidente
> della Consob, e avversario diretto di Berlusconi nell'elezioni del 1994 a
> Roma.
>
> "L'articolo 18 non può essere un tabù: bisogna fare i conti con una nuova
> organizzazione del lavoro e la normativa sui licenziamenti può rientrare

in
> una più complessa riforma degli strumenti di tutela del lavoratore e del
> cittadino. Si deve passare dalla difesa del posto di lavoro alla tutela

sul
> mercato del lavoro". Questa è l'opinione di Michele Salvati, economista,
> deputato Ds nella precedente legislatura.
>
> "Il problema dei 15 dipendenti può essere affrontato con misure analoghe a
> quelle del sommerso, ipotizzando un periodo senza vincoli alle imprese che
> abbiano più di 15 addetti". Era il 26 gennaio 1999. Il luogo: l'università
> Bocconi di Milano. Il relatore, di fronte ad una platea di imprenditori ed
> esponenti del mondo della finanza, l'allora premier Massimo D'Alema, di

cui
> si ricorda ancora la famosa sentenza: "bisogna scordarsi del posto fisso".
>
> Ricordando queste affermazioni, la proposta di ristrutturazione dell'art.

18
> del governo Berlusconi appare, non solo in sintonia e in continuità, ma
> forse addirittura moderata.
> D'altronde, lo stesso libro bianco di Maroni, da cui la delega governativa
> sul mercato del lavoro deriva, è stato redatto da un pool di esperti, la

cui
> appartenenza politica pende decisamente verso il centro-sinistra: da Marco
> Biagi, docente dell'area Margherita, a Natale Forlani, ex-segretario
> nazionale Cisl, a Paolo Sestito, consulente per i problemi del Mezzogiorno
> nominato, ancora una volta, da D'Alema ai tempi del suo governo.
> Ma il punto centrale della questione non è tanto questo. Che ci sia una
> continuità tra la politica di flessibilizzazione del mercato del lavoro
> portata avanti dal precedente governo di centro-sinistra e quella del

nuovo
> governo di centra-destra è abbastanza evidente. La differenza, al limite,
> sta, da un lato, nel fatto che questo governo appare molto più

decisionista
> e non segue una logica concertativa con i sindacati confederali (ma solo

con
> la Confindustria), e dall'altro, che, mentre il governo di centro-sinistra
> ha portato al massimo la flessibilità dell'entrata nel mercato del lavoro
> (dopo il pacchetto Treu, l. 1996 del 1997, sono 17 le tipologie

contrattuali
> atipiche e tipiche a disposizione degli imprenditori per le assunzioni,
> situazione che non ha eguali in Europa, Spagna compresa), il governo
> Berlusconi ha messo mano alla flessibilità in uscita dal mercato del

lavoro
> (dismissioni e licenziamenti), peraltro già a buon punto, ma solo a

livello
> collettivo (mobilità, licenziamenti collettivi, ecc.) e non ancora a

livello
> individuale.
> Il nodo vero della questione è l'aspetto di diritto costituzionale che

viene
> leso con la deroga all'art. 18. Qualunque studio serio sulle

caratteristiche
> del mercato del lavoro italiano (purtroppo pochi) evidenzia che l'art. 18
> non è un fattore di rigidità del mercato del lavoro italiano, che, invece,
> si presenta come uno dei più flessibili in Europa. Al riguardo, basta
> osservare, che su 21, 5 milioni di occupati complessivi in Italia (senza
> contare il lavoro nero, le cui stime ammontano a circa 3 milioni), quasi 6
> milioni svolgono attività non alle dirette dipendenze (lavoro autonomo,
> partite Iva, ditte individuali, contratti di collaborazione, ecc.), con
> contrattazione individuale. Dei restanti 15,5 milioni, 2,5 milioni sono
> soggetti a contratti a tempo determinato o a part-time, circa un milione a
> contratti atipici vari (formazione professionale, Lsu, borse lavoro,
> interinale, ecc.). Solo 12 milioni sono gli occupati con contratto di

lavoro
> a tempo indeterminato, pari al 58% del totale della forza-lavoro, una

quota
> decisamente inferiore alla media europea. Di questi, solo circa 7 milioni
> lavorano in imprese con più di 15 dipendenti (Amministrazione pubblica o
> locale, compresa), per una quota pari al 32%. Se consideriamo, poi, solo i
> lavoratori in imprese dove la presenza sindacale è in grado di far
> rispettare l'applicazione dello Statuto dei Lavoratori, la quota arriva a
> lambire il 20-22%. Nel resto dei casi, l'esperienza pratica già porta i
> lavoratori a dimettersi in modo più o meno coatto dietro un compenso
> monetario.
> Ne consegue che la diatriba sullo Statuto dei Lavoratori interessa tra un
> quarto e un quinto dei/lle lavoratori/trici italiani/e. E non può essere
> causa di rigidità del mercato del lavoro. Né ha alcuna validità l'idea che
> abolendo l'art.18 si favorisce la crescita dimensionale dell'e imprese e
> l'occupazione. Le cause del "nanismo statico delle imprese", per usare
> l'espressione di Spaventa, sono ben altre, in primo luogo le

caratteristiche
> strutturali del sistema produttivo italiano, (ad esempio, il fatto che lo


> sviluppo del fordismo e della grande impresa ha interessato solo aree
> geograficamente ristrette).
> Anche l'idea che un incremento della flessibilità di entrata nel mercato

del
> lavoro portasse ad un incremento occupazionale effettivo (questa era la
> giustificazione del pacchetto Treu, sostenuta dai sindacati confederali e
> votata persino da Rifondazione Comunista) è miseramente naufragata. A
> quattro anni di distanza, si può infatti, osservare che l'unico effetto
> della flessibilità in entrata è stato quello di sostituire lavoro stabile
> con lavoro precario e atipico (a differenza di quanto pensa Morando, è
> perché c'è la precarietà che non si fanno contratti stabili, e non
> viceversa). Ne è conseguito un incremento nel numero degli occupati, e,

solo
> in modo molto limitato, delle unità di lavoro standard (vale, dire un

posto
> di lavoro di 40 ore settimanali), con l'effetto di precarizzare
> ulteriormente il livello reddituale dei nuovi e dei vecchi occupati e
> abbassare il livello salariale relativo, a vantaggio dei profitti e delle
> rendite finanziarie.
> La "vexata questio" dell'art. 18, in realtà, nasconde, dal lato padronale,
> l'intenzione di poter licenziare non tanto per esubero occupazionale (se

ciò
> avviene, ci sono già gli strumenti idonei per poterlo fare), quanto per
> attività sindacale e non subalternità o assoggettamento alla cultura
> aziendale o alla volontà padronale. In questo senso, viene leso uno dei
> diritti costituzionali, quello relativo alla libertà di espressione e di
> dissenso nei luoghi di lavoro.
> Dal lato sindacale, la ferma risposta della Cgil non sembra mettere in
> discussione la sciagurata politica concertativa di sostegno ai processi di
> flessibilizzazione del mercato del lavoro. Appare piuttosto, la risposta

al
> fatto che il governo ha unilateralmente rotto, su pressione

confindustriale,
> il patto consociativo siglato con gli accordi del 1992 e 1993. Il diniego
> opposto ai rappresentanti del movimento dei Social Forum di poter parlare
> sul palco di P.za San Giovanni il 23 marzo può essere letta come una
> conferma di questo sospetto e della reiterata volontà (come già successo a
> Genova in occasione del G8) di non stringere alleanza con l'unico

movimento,
> pur variegato, in grado di esprimere un'opposizione sostanziale e di

merito.
> Marzo 2002
>
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