[Forumlucca] Fw: [ATTAC] INFORMAZIONE 33 - IN MARGINE A PORT…

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Auteur: Mauro Dispenza
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Sujet: [Forumlucca] Fw: [ATTAC] INFORMAZIONE 33 - IN MARGINE A PORTO ALEGRE
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From: "Redazione ATTAC Italia" <redazione@???>
To: <granello.di.sabbia@???>
Sent: Monday, February 18, 2002 9:33 PM
Subject: [ATTAC] INFORMAZIONE 33 - IN MARGINE A PORTO ALEGRE


> GRANELLO DI SABBIA (n°33)
> Bollettino elettronico settimanale di ATTAC
> Martedì, 19-02-2002
> ______________________________
>
> Vi preghiamo di diffondere il Granello nella maniera più ampia
> possibile.
> Numero di abbonati attuali: 3 746
> Per abbonarsi o cancellarsi: <http://attac.org/listit.htm>
> ____________________________________________________________
>
> Indice degli argomenti
>
> 1 - Il magnifico gioco dei paradisi fiscali La vicenda Enron come

paradigma:
> l'arte di far scomparire i profitti e socializzare i debiti
> "La Enron svaligiava la banca e la Andersen procurava l'auto per

scappare".
> L'immagine viene consegnata agli atti del Congresso americano dal
> rappresentante della Camera James Greenwood il 24 gennaio, primo giorno di
> audizioni sul crollo del gigante dell'energy trading. (.) di Angela

Pascucci
> tratto da Il Manifesto
>
> 2 - La battaglia per la riduzione dei TIR all'interno del Tunnel del

Bianco:
> il nostro granello di sabbia nella megamacchina della globalizzazione
> neoliberista.
> Nell'Anno internazionale della Montagna il governo italiano e francese
> intendono proseguire una politica dei trasporti pericolosa e suicida; le
> persone morte nel tunnel del M. Bianco il 23 marzo 1999, nel tunnel dei
> Tauri (Austria) e al Gottardo(Svizzera) nel 2001 non sono servite a far
> trasferire dal trasporto su gomma a quello su rotaie nemmeno un

chilogrammo
> delle merci che transitano dall'arco alpino. (.) Giorgio Caniglia, ATTAC
> Valle d'Aosta
>
> 3 - Missili sui civili
> 11 febbraio 2002, a un passo dalla strage, dallo sterminio, dai ricordi

che
> non si cancellano. Si chiama Tel El Zatar una delle aree residenziali del
> campo profughi di Jabalya dove si è scagliata la furia degli elicotteri e
> dei jet da combattimento israeliani. Elicotteri Apache e jet F16 hanno
> sorvolato la Striscia di Gaza in quel loro modo non equivoco, pronti per
> colpire, per scagliarsi con odio su una folla terrorizzata che si ammassa
> per le strade. (.) di Patrizia Viglino -
>
> 4 - Lettera di una tunisina a Ciampi
> Signor Presidente Ciampi, Lei ha visitato recentemente il mio paese, la
> Tunisia. E ha potuto vedere quello che Le hanno consentito di vedere (.)

di
> Sihem Benzedrine
>
> 5 - Come è scialbo il documento di Porto Alegre!
> Come è scialbo il documento finale di Porto Alegre! Senza emozioni, senza
> vibrazioni, senza calore. Giornate straordinarie, piene di entusiasmo,
> dolore, gioia, balli e lacrime, progetti, futuro, piene di colore

finiscono
> in un documento grigio. Scialbo senza essere brutto, anzi è quasi
> inappuntabile. Perché? (.) di Lanfranco Caminiti
>
> 6 - Sentinella, quanto resta della notte? (Isaia 21,11) A margine di Porto
> Alegre e di Plaza de Mayo
> Sono appena tornato da dieci giorni vissuti in Sud America, dove ho
> partecipato Forum Social Mundial di Porto Alegre e ho visitato Buenos

Aires
> per rendermi conto direttamente di ciò che lì sta accadendo da fine
> novembre. (.) di Don Massimo Nevola.
>
> _____________________________
>
> 1 - Il magnifico gioco dei paradisi fiscali.
> La vicenda Enron come paradigma: l'arte di far scomparire i profitti e
> socializzare i debiti
> ____________________________________________________________
>
> di Angela Pascucci tratto da Il Manifesto
>
> "La Enron svaligiava la banca e la Andersen procurava l'auto per

scappare".
> L'immagine viene consegnata agli atti del Congresso americano dal
> rappresentante della Camera James Greenwood il 24 gennaio, primo giorno di
> audizioni sul crollo del gigante dell'energy trading. L'indignazione e lo
> scandalo crescono, come le montagne di fili sottili a cui sono stati
> ridotti, dalla società di certificazione Arthur Andersen e dalla medesima
> Enron, documenti fondamentali per le indagini. Ma pochi mettono a fuoco un
> elemento non da poco: il piede di porco con cui sono stati svuotati conti

e
> tasche di azionisti, dipendenti e contribuenti è stato fornito dai manuali
> di business administration adottati dalle prestigiose accademie che

forgiano
> la classe dirigente mondiale.
> La Enron aveva costituito 881 sussidiarie, leggasi società di comodo,
> distribuite tra alcuni dei più affidabili paradisi fiscali: 692 alle

Cayman,
> 119 alle Turks e Caicos, 43 alle Mauritius, 8 alle Bermuda. Con questo
> apparato (sostenuto dai politici) ogni operazione finanziaria era un
> vorticoso gioco delle tre carte che alla fine lasciava i profitti sotto le
> palme dei tropici e nelle tasche dei vertici, e le perdite nascoste sotto
> qualche tappetino societario a partecipazione incrociata di misteriosi
> prestanome. Tutto grazie anche all'abilità delle banche (ben pagate) che
> dirigevano il traffico. Finché il traffico scorreva, le azioni salivano e
> tutti erano contenti. Dai vertici ai dipendenti, che sognavano di andarci
> prima o poi anche loro, con laute pensioni, sotto le palme. Poi il
> tamponamento a 200 all'ora. Oggi tutti scoprono che i bilanci della Enron
> erano un assurdo, che puzzavano lontano un miglio. Che invece di stare al
> settimo posto nella lista di Fortune avrebbe dovuto essere piazzata al
> 287esimo. Oggi.
> Oggi si scopre anche che, nonostante le sorti magnifiche e soprattutto
> progressive, grazie all'apparato di cui sopra, in 4 degli ultimi 5 anni la
> Enron non aveva pagato una lira di tasse. Anzi, nel 2000 un'imposta di 112
> milioni di dollari si era trasformata alla fine in un credito di 278

milioni
> di dollari. Il miracolo era frutto di un combinato disposto: paradisi
> fiscali che inghiottivano gli utili e detrazioni da stock options. Tutto
> quello che veniva elargito ai dirigenti era detratto dall'imponibile
> societario.
> Se la Enron non si fosse schiantata (per propri errori) avrebbe continuato
> esattamente così, simile a Moriana, una delle città invisibili di Italo
> Calvino: porte di alabastro e una distesa di lamiera arrugginita come suo
> rovescio. L'organizzazione americana Citizens for Tax Justice,

nell'ottobre
> del 2000, ha esaminato metà delle 500 compagnie nella lista di Fortune

(cioè
> il Gotha delle corporations mondiali trionfanti), scoprendo che 24 di
> queste, nel 1998, non avevano pagato una lira di tasse, come l'ultimo dei
> nullatenenti. Un fenomeno globale verso il quale i governi e le

istituzioni
> finanziarie internazionali mostrano un'inaccettabile indulgenza. E questo
> spazio grigio, dove i confini si annullano nell'anonimato più complice,

sta
> crescendo a dismisura, assumendo un aspetto di normalità nel panorama di
> un'economia asimmetrica e malata. Piccola criminalità rispetto alla grande
> (con cui comunque condivide percorsi e mezzi), ma altrettanto corruttrice

e
> devastante.
> Una lettura da non perdere è l'articolo pubblicato dalla rivista americana
> Opulence (sotto testata: il meglio che il mondo ha da offrire) dal target
> assai preciso. Tra un poppante che gattona con una collana di diamanti al
> collo e la pubblicità di yachts e Ferrari, il signor Terry L. Neal,
> consulente finanziario, spiega al lettore americano le meraviglie e i
> vantaggi dei Centri finanziari internazionali offshore (Ifc), termine

"usato
> professionalmente per identificare un paradiso fiscale legale".
> Il riccone dall'anima puritana al primo impatto forse sussulta. E' pur
> sempre vero che negli Stati uniti (e non solo) ancora è vietato fare
> pubblicità ai paradisi fiscali, tant'è che la nostra Opulence neppure
> richiama l'articolo in prima pagina e l'editoriale-sommario della
> platinatissima direttrice neppure lo menziona. Ma Neal, misurando le

parole
> per non sconfinare nell'istigazione a delinquere, è qui per dirci che

questa
> attitudine è roba vecchia, di retroguardia. Proventi della droga, attività
> illecite, riciclaggio? Miti d'altri tempi. Oggi l'offshore è considerato

dai
> "sofisticati manager del denaro globale un modo sicuro e ragionevole per
> fare affari". Un'importante attività che "si estende in ogni angolo del
> globo e coinvolge ormai, in un modo o nell'altro, metà delle transazioni
> finanziarie mondiali". Vale a dire un fiume di duemila miliardi di dollari
> (cifre dell'Usa Federal Reserve System) che ogni giorno fluisce attraverso
> questi territori con legislazioni compiacenti, architettate appositamente
> per "attirare" ma soprattutto "proteggere" i capitali internazionali.

Tant'è
> che "un americano su quattro, tra quelli che guadagnano oltre 100mila
> dollari l'anno" ha già scoperto queste meraviglie, i cui vantaggi vanno

ben
> oltre la banale evasione fiscale (pardon, legittima difesa dall'avidità
> dello stato). Perché ben oltre l'erario, spiega Terry Neal, va l'esercito

di
> quelli che potrebbero pretendere di mettere le zampe sul vostro capitale:
> dipendenti maltrattati, consumatori inferociti, mogli livide, comunità
> imbestialite. I motivi di querela e denuncia sono infiniti, soprattutto in
> una società come quella Usa dove si svolge il 94% delle cause civili
> mondiali. Una bella compagnia offshore farà sparire fino all'ultimo
> centesimo, e chi potrà rivalersi su un nullatenente?
> Poi c'è la privacy, fondamentale per le "strategie d'impresa" e la
> "pianificazione del rischio" (come anche i criminali di ogni ordine e

grado
> che trafficano a livello globale potrebbero confermare). Ormai non si è

più
> sicuri nemmeno in Svizzera e ci sono paesi, come gli Stati uniti, che

sempre
> più minacciano l'inalienabile "diritto alla segretezza", soprattutto dopo
> l'emanazione delle leggi contro i finanziamenti del terrorismo. La fuga è

il
> minimo, davanti a questo fuoco concentrico di controlli che pretende di
> appurare tutto su transazioni, scambi e quant'altro. Proprio per questa
> perniciosa attitudine da parte delle autorità nazionali vi sono fondi di
> investimento che non accettano capitali provenienti da alcuni paesi. E,
> guarda un po', sono i fondi più redditizi. Terry Neal cita in proposito la
> Guide to Offshore Investment Fund di Standard & Poor, che riporta come

siano
> ben 6.200 i fondi off-shore che, per esempio, rifuggono come la peste i
> capitali targati Usa ("troppe vessazioni dalle autorità fiscali e
> regolatorie"). I primi 350 della lista sono riusciti ad avere tassi di
> rendimento che vanno dall'800 al 900%. Che aspettate allora ad andare a
> costituire una bella società offshore che farà da "investitore"?
> Certo non si fa con uno schiocco di dita. Per "lanciarvi nel mondo

offshore"
> dovete avere un buon consulente (Terry Neal largheggia in nomi con

relativa
> posta elettronica) che scelga il paradiso giusto (quello ideale deve

essere
> "politicamente neutro", "English speaking", persino "democratico", ben
> attrezzato per infrastrutture e leggi). Una banca privata affidabile,

meglio
> se con qualche filiale offshore, farà il resto con i suoi "servizi

speciali"
> e completi. Ultima raccomandazione dello zelante Terry. I capitali possono
> girare a piacimento, ma non andate a raccontare che volete volare via col
> malloppo per incompatibilità con l'erario. E' unfair. Piuttosto ricordate
> che se oggi questi 65 paradisi fiscali esistono è perché molti anni fa
> americani, britannici e canadesi decisero di ridurre gli aiuti ad alcuni
> paesi in via di sviluppo. Al posto di prestiti, doni e finanziamenti, fu
> loro concesso di garantire generosi incentivi fiscali alle società
> multinazionali che decidessero di investirvi. Quando gli imprenditori si
> accorsero di queste attraenti opzioni, "il gioco fu fatto". Dunque non è
> vero che si scappa con la cassa: si partecipa a un progetto di sviluppo

del
> Sud del mondo. Che altro volete?
>
> _____________________________
>
> 2 - La battaglia per la riduzione dei TIR all'interno del Tunnel del

Bianco:
> il nostro granello di sabbia nella megamacchina della globalizzazione
> neoliberista.
> ____________________________________________________________
>
> Giorgio Caniglia, ATTAC Valle d'Aosta
>
> Nell'Anno internazionale della Montagna il governo italiano e francese
> intendono proseguire una politica dei trasporti pericolosa e suicida; le
> persone morte nel tunnel del M. Bianco il 23 marzo 1999, nel tunnel dei
> Tauri (Austria) e al Gottardo(Svizzera) nel 2001 non sono servite a far
> trasferire dal trasporto su gomma a quello su rotaie nemmeno un

chilogrammo
> delle merci che transitano dall'arco alpino.
> Oltre alle disgrazie sopraccitate, il trasporto merci su TIR inquina e
> degrada un ambiente alpino che va salvaguardato dal punto di vista
> naturalistico, culturale e delle risorse umane che rappresenta.
> Da molti anni iniziative sono state assunte dalle popolazioni locali

nonché
> da Enti Pubblici, Associazioni, Partiti e Movimenti per salvaguardare e
> tutelare la loro economia basata sull'agricoltura, turismo e artigianato
> nonché risorse fondamentali quali l'acqua; negli ultimi tempi vi sono

state
> anche manifestazioni internazionali: quella del 6 ottobre 2001 - a cui il
> Direttivo provvisorio di ATTAC Italia aveva dato l'adesione - alla

Maurienne
> (versante francese del Frejus) e quella del 4 gennaio 2002 a Courmayeur.

Ora
> si sta organizzando quella che si terrà a Courmayeur il 23 marzo prossimo

in
> occasione del 3°anniversario del rogo del Tunnel. In questa occasione

verrà
> messa in evidenza la necessità di tutelare il Monte Bianco e l'arco alpino
> considerato da tutti di inestimabile valore e patrimonio mondiale
> dell'intera umanità.
> Queste iniziative sono fortemente simboliche: vincere al Monte Bianco per
> vincere in tutto l'arco alpino e fare sì che: le politiche dei trasporti
> nazionali e europee cambino radicalmente sino a trasferire totalmente il
> transito delle merci attraverso l'arco alpino dalla gomma alla rotaia; si
> blocchino le politiche di delocalizzazione e si facciano pagare al

trasporto
> su gomma i reali costi di inquinamento, di degrado e di danno alla salute
> delle popolazioni.
>
> L'odierno dibattito sulla riapertura del Tunnel del Bianco deve essere

visto
> come un conflitto su un bene pubblico transfrontaliero: il massiccio del
> Bianco e i suoi territori. Un conflitto sulla gestione di tale bene, ossia
> su chi ne deve decidere e in base a quali criteri.
> Le popolazioni del massiccio del Bianco, appoggiate dalla società civile
> locale e globale, tentano di opporsi alle aziende gestrici del Tunnel e
> della rete autostradale collegata (Società Autostrade Valdostane

controllata
> dalla multinazionale Benetton), fiancheggiate a loro volta dalle

istituzioni
> statali (i governi francese e italiano) e sopranazionali (UE).
> Il nostro ruolo, come ATTAC, in questo conflitto può, naturalmente, essere
> uno solo: il pieno sostegno ad ogni campagna pubblica che abbia come
> obiettivo una radicale trasformazione delle attuali politiche dei

trasporti
> in Europa e nel mondo.
>
> Uno dei dogmi del processo di globalizzazione neoliberista è la libera
> circolazione delle merci, dovuta all'attuale divisione mondiale del

lavoro.
> Le merci, sempre più frequentemente, vengono fabbricate in paesi del Sud

del
> mondo dove la manodopera é meno cara e i diritti dei lavoratori non

vengono
> rispettati. Quel che si produce nel Sud del mondo dovrà però essere
> trasportato nel Nord per essere venduto; e ciò crea importanti problemi
> ambientali e sociali.
>
> Al fine di contribuire al dibattito oggi sviluppatosi sulla problematica

dei
> trasporti, vogliamo sottolineare che il tema dei trasporti non può essere
> affrontato solo ad un livello locale. Non solo per ragioni di solidarietà
> con le altre popolazioni dell'arco alpino, ma perché si tratta di una
> problematica complessa che trova le sue radici nel globale.
> Alla base di questo problema stanno, infatti, i nostri modelli di

produzione
> e di consumo, orientati ad un produttivismo e consumismo sempre più
> irrazionale.
>
> Per questi motivi sosteniamo una politica di:
> o potenziamento del trasporto combinato rotaia-gomma, con l'obiettivo di
> giungere in tempi brevi ad un riequilibrio del trasporto merci a favore
> della rotaia;
> o rivalutazione degli scambi economici regionali e promozione di circuiti
> corti di distribuzione, soprattutto nel campo alimentare.
>
> In particolare appoggiamo la proposta di introduzione, sull'esempio
> svizzero, di una Redevance sur le trafic des poids - lourds liée aux
> prestations (RPLP). Si tratta di far pagare ai trasporti pesanti un

pedaggio
> su ogni strada percorsa sulla base di: peso e volume di immissioni, km
> percorsi. I proventi di questa imposta dovrebbero essere destinati, come

in
> Svizzera, al rinnovamento e alla modernizzazione delle infrastrutture
> ferroviarie e a compensare, almeno in parte, gli svantaggi subiti dalle
> popolazioni e dai territori attraversati dai TIR.
>
> Come si vede, l'obiettivo non è solo quello di criticare l'attuale sistema
> dei trasporti, ma di mettere in discussione l'organizzazione

internazionale
> della produzione e dei consumi delle merci.
> Senza una sensibile diminuzione delle merci trasportate, anche il più
> innovativo piano dei trasporti risulterebbe solo una soluzione temporanea.
>
> Il 30% delle merci trasportate su strada attraverso le Alpi sono alimenti

e
> prodotti agricoli. Lo stesso TIR all'origine della tragedia del Bianco
> trasportava margarina e farina dal Belgio verso l'Italia. E' ora di dire
> basta ad un sistema che porta a trasportare per migliaia di Km merci che
> potrebbero essere prodotte in ciascuna regione d'Europa.
>
> Oggi, lottare contro il ritorno dei TIR nel Tunnel del Bianco significa
> lottare per un diverso sistema di trasporto - e quindi di produzione -

delle
> merci, in tutto il mondo.
> La battaglia per la riduzione del traffico pesante all'interno del Tunnel
> del Bianco sarà il nostro granello di sabbia nella megamacchina della
> globalizzazione neoliberista.
>
> _____________________________
>
> 3 - MISSILI SUI CIVILI
> ____________________________________________________________
>
> di Patrizia Viglino - 11 febbraio 2002
>
> A un passo dalla strage, dallo sterminio, dai ricordi che non si

cancellano.
> Si chiama Tel El Zatar una delle aree residenziali del campo profughi di
> Jabalya dove si è scagliata la furia degli elicotteri e dei jet da
> combattimento israeliani. Elicotteri Apache e jet F16 hanno sorvolato la
> Striscia di Gaza in quel loro modo non equivoco, pronti per colpire, per
> scagliarsi con odio su una folla terrorizzata che si ammassa per le

strade.
> L'esperienza insegna che le abitazioni in questi casi non sono sicure.
> Quarantotto ore di inferno per i profughi che vivono prigionieri a Gaza. I
> boati delle esplosioni hanno terrorizzato la gente, molte persone sono
> rimaste ferite e tantissime sotto shock. Non credo sia usuale immaginarsi

la
> sensazione fisica di trovarsi sotto i bombardamenti mentre si va al lavoro

o
> a scuola o mentre si sta a casa a cucinare. A Gaza si combatte ogni giorno
> contro la fame, la disperazione ma sopratutto contro la paura. Mesi e mesi
> di avvisaglie. Tante volte la striscia di Gaza ha risuonato del rombo

sordo
> delle bombe e dei sofisticatissimi missili anche durante il giorno. Ci

sono
> stati mesi in cui ai palestinesi semplicemente non era concesso dormire

per
> il continuo pericolo di attacchi e l'instancabile boato di fondo delle
> esplosioni. E la paura, il terrore, l'orrore è cresciuto in questi mesi in
> cui la morsa dell'occupazione militare, a Gaza come a Nablus o Tulkarem, è
> diventata insopportabile. Adesso quello che era atteso con paura e
> costernazione inizia a materializzarsi. Le micidiali armi da combattimento
> che Israele oppone a una popolazione inerme e sotto assedio non saziano la
> fame di sangue del generale Sharon. Il campo profughi di Jabalya è stato
> colpito con diverse tornate di missili potentissimi. Gli obiettivi sono
> state due officine meccaniche (secondo gli israeliani obiettivi

militari!!!)
> e gli uffici della sicurezza palestinese tra cui un carcere e gli uffici
> delle Nazioni Unite. Decine e decine i civili feriti, tra cui tre
> giornalisti, e un bambino si 13 anni rimasto cieco nell'attacco alla

seconda
> officina che si trovava in una palazzina.
> Colpire con armi micidiali e di sterminio una popolazione di profughi non
> lascia dubbi sugli intenti degli esecutori. Lo sterminio del resto è

quanto
> una grande fetta della destra ultra ortodossa israeliana con la sua
> oligarchia militare sta proponendo già da tempo, con diversi eufemismi

dell'
> azione: spostiamoli, rimuoviamoli, distruggiamoli, questi gli slogan più

in
> uso.
> E lo sterminio nei campi palestinesi di Sabra e Chatila è quello che la
> storia non ci ha ancora raccontato del tutto. Siamo in attesa di tragiche
> verità e molto dolore per Israele. Non sappiamo se i pacifisti israeliani
> che chiedono la fine dell'occupazione saranno pronti a guardare la realtà
> con gli occhi di un palestinese che è nato e cresciuto a Gaza, tra una
> detenzione amministrativa e un altra, rinchiusi come bestie. Al di là

della
> recinzione, oltre il valico di Erez, non c'è altro che i vecchi villaggi
> palestinesi, le terre espropriate nel 1948 dalla guerra di occupazione

dove
> ora vivono quegli stessi israeliani che guidano elicotteri apache e jet

F16
> sulla folla di profughi, nell'area più affollata al mondo. Sarebbe più
> comodo sterminarli tutti e magari uno di questi giorni Sharon farà centro

di
> nuovo e ne ucciderà tanti in un solo colpo, magari per qualche errore
> tecnico o di prospettiva. Ogni volta gli attacchi israeliani sui civili
> palestinesi si spostano un poco oltre per testare le armi, le reazioni
> internazionali, il valore delle leggi internazionali, dalla IV Convenzione
> di Ginevra ai semplici e banali diritti umani. Il test finisce sempre

bene:
> tutti si dimenticano in uno o due giorni, qualche pacifista si lamenta e
> Sharon continua la sua corsa. Un folle, un pazzo sanguinario che non

conosce
> altro linguaggio che quello delle armi di distruzione di massa. Qui muore

l'
> occidente, alle porte di un genocidio dilazionato che è già cominciato.

Qui
> si ferma il respiro di chi sa che 4 khalasnikov e qualche bomba

artigianale
> non possono essere paragonati alla più sofisticata tecnologia di guerra. I
> palestinesi sanno che non potranno mai vincere contro l'esercito di
> Israele-USA e non vogliono la guerra. Aspirano a quella cosa molto

semplice
> e necessaria che si chiama libertà da cui derivano dignità e futuro.

Ancora
> una volta qualche giornalista televisivo è riuscito a fare la cronaca con
> tanto distacco e a precisare in tutta fretta che gli israeliani temono i
> palestinesi e i loro razzi.... C'è solo da temere questo irresponsabile
> silenzio.
>
> _____________________________
>
> 4 - Lettera di una tunisina a Ciampi
> ____________________________________________________________
>
> di Sihem Bensedrine
>
> Signor Presidente Ciampi,
>
> Lei ha visitato recentemente il mio paese, la Tunisia. E ha potuto vedere
> quello che Le hanno consentito di vedere.
> Ha reso omaggio alle "realizzazioni economiche, alle conquiste sociali
> realizzate in questi ultimi dieci anni..." e salutato "la visione" dei
> nostri dirigenti "fondata sui valori della democrazia, della libertà e dei
> diritti dell'uomo, di pluralismo sociale, di libertà di scelta

individuali,
> di condizioni della donna e di rispetto delle diversità". Questa Tunisia

da
> cartolina che Lei ha salutato, noi tunisini non la conosciamo affatto. La
> nostra Tunisia ci sembra piuttosto una grande prigione dalle invisibili
> sbarre.
> Questa settimana, con nostro grande sollievo, il pittore Bouabana è stato
> liberato. Era stato incarcerato per aver criticato, durante una serata
> privata, il Presidente della Repubblica. Ieri, uno studente ha avuto il
> cranio fracassato e altri due gambe e braccia fratturate dalla milizia del
> partito di governo, l'RCD, e dalla polizia universitaria per aver osato
> proteggere un'urna che doveva indicare gli eletti al consiglio

universitario
> di Monastir. (...) Io stessa a giugno sono stata incarcerata per un mese e
> mezzo per aver denunciato su un canale satellitare di Londra le torture
> praticate sistematicamente sui detenuti politici. Sono ancora in attesa di
> giudizio.
> É così che l'Italia intende "...la libertà e di diritti dell'uomo"? In
> Tunisia non esiste alcun giornale libero e l'esercizio della libertà di
> associazione e di riunione è un crimine per il quale si rischiano fino a
> dieci anni di prigione. Il presidente del Movimento dei Democratici
> Socialisti, Mohamed Moada, sta scontando una pena a otto anni di prigione
> per aver criticato apertamente le scelte della politica di Ben Alì. Le
> nostre prigioni sono sovraffollate e quasi un migliaio di prigionieri
> politici marciscono in condizioni inumane da più di dieci anni.
> Lei ha giustamente sottolineato che "non avremo mai stabilità e sicurezza
> nel mondo fino a quando non avremo rifiutato al terrorismo il diritto di
> cittadinanza nella comunità delle nazioni". Ha riflettuto sul fatto che

nell
> 'aria geografica che produce il terrorismo islamico non c'è una sola
> democrazia? Che tutte le dittature del mondo arabo- islamico sono o erano
> gli alleati indiscussi dell'Occidente e si sono mantenute al potere
> asservendo i loro popoli grazie all'appoggio delle democrazie occidentali?
> (...)
> Signor Presidente Ciampi, io non sono sicura che il Mediterraneo possa
> unirci, come voi avete auspicato nella vostra dichiarazione, fino a quando

i
> popoli della riva Nord continueranno a pensare che la democrazia è un

lusso
> per i popoli della riva Sud.
> Sihem Bensedrine è una giornalista tunisina. Il suo giornale è stato

chiuso
> dal governo di Ben Alì. Oggi dirige una rivista on line:
> www.kalimatunisie.com
>
> _____________________________
>
> 5 - Come è scialbo il documento di Porto Alegre!
> ____________________________________________________________
>
> di Lanfranco Caminiti
>
> Come è scialbo il documento finale di Porto Alegre! Senza emozioni, senza
> vibrazioni, senza calore. Giornate straordinarie, piene di entusiasmo,
> dolore, gioia, balli e lacrime, progetti, futuro, piene di colore

finiscono
> in un documento grigio. Scialbo senza essere brutto, anzi è quasi
> inappuntabile. Perché? Che quanto di più vivo, emozionante, stimolante si
> sia trovato più nelle strade, nei contatti personali e di gruppo, nello
> scambio di esperienze, nei pochi momenti di relax, nelle manifestazioni
> improvvisate, nei seminari [i media, gli osservatori ecc], nei gruppi di
> lavoro delle "oficinas", nelle assemblee di dibattito [Chomsky, Hardt,
> Klein, Ramonet ecc], piuttosto che nelle riunioni di elaborazione della
> "rappresentanza" internazionale del movimento, mi pare un dato evidente e,
> al contrario ch'essere sconfortante, un elemento di enorme fertilità per

il
> futuro. E certo si sa che nessun documento può riuscire a "contenere"
> quell'esuberanza, che presumo ciascuno di coloro che vi hanno partecipato
> continuerà a serbare come memoria preziosa: ma questa non è un'obiezione.
> Che la "rappresentanza" internazionale del movimento sia meno interessante
> della minuta attività quotidiana che ormai milioni di attivisti svolgono

in
> tutti gli angoli del pianeta è un'affermazione talmente banale da essere
> incontrovertibile. Che sia necessaria una qualche "burocrazia" che stia lì

a
> passar le ore a discutere di aggettivi e sostantivi, a mediare sulle
> prossime date e scadenze, sui luoghi e la scaletta dei temi e degli
> interventi, è anch'essa un'evidenza che appartiene al regno delle

necessità
> [non ho davvero alcuna invidia per questo defatigante lavoro e mostro anzi
> enorme comprensione per i suoi esecutori]. Però, ecco, il documento dei
> movimenti sociali riuniti a Porto Alegre è proprio scialbo. Non intendo
> entrare nei dettagli del documento: ciascuno dei punti qualificanti ha
> ragioni di validità, presenta con buon senso le battaglie intraprese e
> quelle che si intendono iniziare, mostra, insomma, con linguaggio

semplice,
> divulgativo, popolare, un "programma". Non è neanche difficile immaginare

la
> fatica del mettere assieme "ragioni" economiche e squisitamente politiche,
> una attenzione all'ambiente e un'altra al lavoro, la cura per i diritti
> minuti e quella per i grandi scenari. Benché risulti davvero difficile
> "tenere assieme" tutte le intenzioni [troppo europeiste alcune, troppo
> socialiste altre, troppo fondamentaliste altre ancora], bisogna

riconoscere
> che sta proprio qui probabilmente la gran qualità di questo nuovo

movimento
> dove - almeno sinora e questa comunque è l'intenzione dichiarata della

quasi
> totalità dei suoi attivisti - "tout se tient" in maniera

straordinariamente
> propositiva. La sensazione, ovvero, è che il lavorio di mediazione non sia
> al ribasso ma si provi a andare avanti, a cercare verifiche, a trovare il
> terreno cruciale della costruzione. Però, ecco, il documento di Porto

Alegre
> è proprio scialbo. E provo a dire perché esso a me sembra così, senza

alcuna
> spocchia - che non ho per carattere -, e senza alcuna saccenza. Esso

sembra
> intenzionalmente pensato per mostrare urbi et orbi [all'interno del
> movimento come a tutti coloro che verso esso mostrano interesse o anche
> ostilità] come il movimento abbia superato la fase del suo carattere tutto
> accidentale [propriamente, legato ad accidenti, ad eventi] e sia in grado

di
> porsi come interlocutore planetario credibile, stabile, "programmatico"
> appunto, capace cioè di immaginare esso eventi, di relazionarsi,
> modificarli, intervenirvi, adattarvisi, in una parola di fare la "politica
> grande " [anche a partire da territori circoscritti, quasi periferici], e

di
> riuscire a infilare i tasselli delle sue espressioni geografiche e di
> campagne politiche [dalla Tobin tax ai bilanci partecipativi all'acqua a
> che] dentro un grande mosaico non solo geografico. Da Seattle a Porto

Alegre
> diventa così non tanto un riferimento geografico e di diverse espressioni

di
> un movimento, ma una progressione: Porto Alegre, questa Porto Alegre è un
> punto d'arrivo e di una "ripartenza" [come si dice in gergo calcistico], e
> se ne immaginano sue riproduzioni e cloni [i forum continentali nelle
> Americhe, nell'Europa]. Da Seattle a Porto Alegre, passando per Praga,
> Nizza, Genova [ma anche Washington, Davos e tante altre scadenze] tutto
> sembra ricondursi qui, e via così, immaginando nuove Praga, Nizza, Genova
> [con la speranza che non siano più quelle "sommosse di polizia" di cui

parla
> Walden Bello] e tante altre scadenze e tante altre campagne, per tornare a
> Porto Alegre a fine giro. Con in più - e non è certo cosa di poco conto -
> che adesso c'è un "programma", una credibilità internazionale, un

"soggetto
> politico". Che ha le sue "strutture", di base, intermedie, di vertice. Ora

è
> proprio questo a risultarmi poco convincente, ed è proprio questa scelta

di
> percorso a risultarmi un'idea di "ripartenza" che non mi entusiasma,
> perché - e su questo credo ci sia un assoluto comune convincimento dei
> milioni di attivisti che in tutto il mondo giorno per giorno si battono,
> elaborano, fanno proposte, organizzano riunioni e giornate di
> mobilitazione -, è vero, è necessario un passaggio forte e importante del
> movimento. Solo che il suo riferimento centrale non sta nell'osservazione
> del proprio percorso, già accaduto [da Seattle a Porto Alegre passando per
> Genova] o da accadere, non sta insomma nelle "proprie" scadenze, che siano
> di elaborazione, che siano di campagne, che siano di mobilitazione contro

qu
> esto o quell'organismo di governo internazionale dell'economia o del
> commercio, ma in quello che già accade "fuori di sé". E quello che già
> accade fuori di sé ha sostanzialmente un nome: Argentina. La crisi

argentina
> è contemporaneamente l'evidenza del fallimento del modello neoliberista
> applicato nelle sue forme "pure" [dove cioè la resistenza di altri

soggetti
> politico-economici oltre il governo erano deboli - la sinistra, i

sindacati,
> associazioni di interesse corporativo, nazionalismi statali] e

l'improvvisa
> irruzione di un nuovo soggetto sociale mai visto prima d'ora per la sua
> composizione [classe media, descamisados, operai, donne e anziani], che è
> stato capace, senza "strutture" consolidate e visibili, di tenere testa a

un
> governo, di chiedere la testa di uno, due, tre governi, di ottenere
> immediate concessioni, di "fare politica", governando la piazza e
> autogovernando la mobilitazione quotidiana. Che è stato capace di

applicare
> in termini massivi una mobilitazione, una disobbedienza assolutamente
> pacifiche, in cui convogliare tensioni e interessi diversi

[corporativismi,
> egoismi di ceti differenti, disperazione ambigua], ma anche di saper fare
> "pressione di piazza" quando è stato necessario. Che ha pagato un prezzo
> altissimo in termini di sangue ma non ha perso la testa, mantenendo e anzi
> allargando ancora la propria capacità di resistenza e di influenza sugli
> eventi, mostrando una maturità inimmaginabile in termini così diffusi. In
> Argentina abbiamo assistito al primo grande movimento che abbia messo al
> centro della sua lotta la questione della moneta, incarnando quindi di

fatto
> per la prima volta, in termini di massa, in termini di mobilitazione
> sociale, quella che è stata la grande trasformazione economica [non dico
> produttiva, dico economica] di questi ultimi anni: la finanziarizzazione
> dell'economia mondiale. E, in questo senso, impiantando una battaglia che

è
> contemporaneamente estremamente radicata nel territorio di riferimento ma

la
> cui valenza [anche immediata] rimbalza ovunque nel mondo, foss'anche solo
> per via dei mercati internazionali. Come se, insomma, il braccio di ferro

di
> Soros contro la sterlina o le manovre della Banca della Malaysia sui cambi
> del dollaro o l'improvviso crollo dell'indice nikkei [tutti episodi di

anni
> fa] avessero questa volta per "soggetto" la mobilitazione sociale. Per la
> prima volta, una mobilitazione sociale sul "simbolico" [e la moneta è

segno
> per eccellenza] e non per una qualche materialità [il posto di lavoro per
> una fabbrica che chiude dislocandosi altrove, un incidente in una fabbrica
> della morte, una inondazione, la siccità nei campi, la manipolazione di un
> qualche gene alimentare] ha assunto dimensioni straordinarie e un impatto
> straordinario, mostrando la forza di cogenza che il simbolico ha nelle
> nostre relazioni umane e sociali [a cominciare dalle differenze di ceto
> sociale di appartenenza, di materialità del possesso di oggetti] e, nello
> stesso tempo, la sua enorme fragilità, la possibilità cioè di liberarsene
> [gli assalti ai bancomat sembrano la versione attualizzata degli "assalti

ai
> forni" di manzoniana memoria]. Qui siamo ben oltre - come è facile

intuire -
> le mobilitazioni contro il "logo", per riferirci a iniziative simboliche

già
> messe in atto dal movimento [contro mc'donalds, la nike ecc.]. O se si
> vuole, qui stiamo parlando del "logo" per eccellenza: il denaro, la

moneta.
> In Argentina la situazione è ancora fluida e questo può significare

diverse
> cose: un riflusso delle iniziative di piazza, una svolta autoritaria e
> repressiva capace di spezzare ogni resistenza, una qualche composizione

che
> riesca a cooptare una parte della stratificazione sociale abbandonando il
> resto a qualsiasi tipo di gestione [da quella repressiva a quella della
> marginalizzazione, del controllo], una capacità di determinare ancora

crisi
> nel governo di quell'economia strappando progressivamente piccole

conquiste
> e tenendo sempre aperto l'affrontamento tra la "piazza" e il governo.

Forse
> altri scenari possono immaginarsi e delinearsi [non ho una conoscenza
> talmente approfondita da poter con leggerezza delineare ipotesi], ma una
> cosa mi sembra certa: qualunque sia lo scenario che si determinerà in
> Argentina esso avrà un impatto notevole sull'immaginario di questo nuovo
> movimento a livello mondiale. E sarebbe grave se non fosse così. Una
> sconfitta dura [repressiva, militare o poliziesca] avrà un impatto duro,

una
> capacità di gestire ancora la crisi in modo aperto da parte del movimento
> argentino avrà un impatto di grande sensazione positiva. Ecco, io credo

che
> la questione argentina dovrebbe essere al centro della riflessione, dello
> sforzo, dell'attenzione, della mobilitazione persino di tutto il movimento
> mondiale. Ecco, io mi sarei aspettato da Porto Alegre che la "delegazione
> argentina" non venisse solo accolta con entusiasmo e calore - come è

stato -
> e con l'impegno solenne a stare loro vicino - come è stato - anche andando
> lì - come sarà -, ma che diventasse occasione "fisica" di un confronto
> generale sulla situazione del loro paese. Mi sarei aspettato che già prima
> di Porto Alegre la riflessione sull'Argentina coinvolgesse tutti coloro

che
> hanno un compito nelle "strutture della rappresentanza internazionale" e

in
> qualche modo a Porto Alegre la ponessero al centro. Senza rinunciare a

altri
> seminari, a altre elaborazioni, a altri programmi. Ma dando un punto di
> gravità, un centro focale. E le diverse anime, le diverse intelligenze, le
> diverse intenzioni avrebbero avuto modo di controbattersi anche duramente
> [peraltro, proprio una riflessione "nazionalista di sinistra" che chiede
> "più Stato e più istituzioni" si va coagulando in Argentina], di proporre,
> di ascoltare, di immaginare insieme, perché ancora "tout se tient", ma
> attorno una questione precisa, immediata, di potenziale enorme. Perché è
> questo a mio modesto parere il modo e il percorso che possono avere questo
> movimento, che non può e non deve più - come è dichiarazione comune -
> guardare a se stesso solo in termini di "appuntamenti": individuare di

volta
> in volta quelle situazioni che in qualche modo focalizzano una o più
> questioni "centrali" e farne occasione di mobilitazione internazionale.

Come
> è stato - o sarebbe dovuto essere stato - per la guerra contro
> l'Afghanistan. E come è certamente stato l'11 settembre, quando, ovunque

nel
> mondo [nella microcooperativa indiana come tra i volontari statunitensi

come
> tra gli immigrati in Italia], qualunque attivista ha dovuto fare i conti -
> in mezzo ai suoi compagni e le realtà in cui interveniva - con quello che
> stava accadendo. E come in parte è stato ancora dopo l'11 settembre quando
> la sensazione diffusa nel movimento internazionale era che il movimento
> americano fosse quello nella difficoltà maggiore, attanagliato tra il
> revanscismo patriottico e l'orrore che aveva assunto l'attacco all'impero;
> che il movimento americano avesse più di ogni altro bisogno

dell'attenzione
> del movimento internazionale, perché senza il movimento americano -
> soprattutto dopo l'11 settembre - non ci sarebbe mai stato movimento
> internazionale. Solo che qui va rovesciata l'iniziativa. Solo che qui - in
> Argentina - la situazione è già rovesciata. Certo, altre, tante situazioni
> urgono o ancora incancrenisono, e alcune d'esse hanno un significato

enorme
> [la situazione in Palestina, per dire, i vari "plan" per l'America del

sud,
> l'assenza di diritti elementari in troppe parti del mondo], ma nessuno ci
> impedisce di essere contemporaneamente attenti a quante più cose possibile
> [come d'altronde il documento fa] ma mettendo al centro di volta in volta
> "un punto focale" [come il documento non fa]. Non ci serve un cahier de
> doléances, benché sotto forma di programma e di mobilitazione; ci serve
> individuare - come d'altronde il movimento ha finora spontaneamente fatto,

a
> Seattle, a Praga, a Nizza, a Genova - delle "porte strette", non per
> restarvi intrappolati ma per forzarle, teoricamente, attivisticamente,
> analiticamente, politicamente, come appunto è stato fatto con il Wto, il

Fmi
> o il Wef. Allora, sì, abbiamo una agenda fitta fitta, tra incontri della

Fao
> e del Wto da contestare, tra forum sociali da consolidare a Quito come a
> Yoknapatawpha, benché io non riesca a trovare alcun interesse al quesito

se
> il forum continentale europeo si debba svolgere in Francia o in Italia
> [propongo di tenerlo in Spagna, per la sua importanza sul mondo di lungua
> latina, o di tenerlo in Germania, dove un confronto con la parabola
> istituzionale discendente dei Grünen è di estremo interesse e dove si può
> aprire una porta verso l'est europeo, un luogo dove di "esplosioni
> all'argentina" contro il liberismo ne potrebbero accadere presto, in
> Romania, Bulgaria, Russia]. E non basta immaginare un percorso secondo il
> criterio "natura non facit saltus": certo, ci vuole un lento lavoro di
> accumulazione, di sedimentazione, di rassodamento, ma il movimento può
> andare avanti solo a salti, può andare avanti solo impadronendosi di volta
> in volta di una questione cruciale, cavandone fuori tutti i significati,
> tutte le applicazioni anche immediate per il proprio lavoro quotidiano:

non
> c'entra niente la solidarietà, l'internazionalismo socialista. Qui non si
> tratta di "non lasciare solo" il movimento argentino: qui è il movimento
> internazionale che rischia di restare solo. E poi qui il saltus c'è, e

bello
> bello: si chiama Argentina: un confronto e uno scontro diretto tra una
> moltitudine sociale composita e il governo mondiale dell'economia, che
> stritola, spazza via i nazionalismi, quei ceti dirigenti compradori o
> "analisti" o da jet-set che si vogliano definire. Perché la costituzione
> materiale che avrà qualunque definizione di questo confronto e scontro si
> delineerà, essa non potrà, per principio, che essere post-nazionale, anche
> nelle ipotesi che prenda corpo una soluzione da nazionalismo argentino in
> cui più schieramenti politici si intendano: e nelle dinamiche di quei ceti
> dirigenti e nelle dinamiche dei movimenti: la questione del "debito

estero",
> per principio - appunto - post-nazionale, e della sua remissione, ne è
> evidenza. E' lì [a mio parere, ma, come è noto, le "ripartenze" nel calcio
> non sono un dato oggettivo ma punti di vista molto soggettivi] che

dobbiamo
> puntare gli occhi, inventare, mobilitare, partecipare. Ecco perché a me il
> documento finale di Porto Alegre sembra scialbo senza essere brutto, anzi
> persino inappuntabile: è una agenda ma non ha punti focali, non ha colore

e
> non ha calore. E non ha - curioso, no? - senso immediato della politica.
>
> Roma, 7 febbraio 2002
>
> _____________________________
>
> 6 - Sentinella, quanto resta della notte? (Isaia 21,11)
> A margine di Porto Alegre e di Plaza de Mayo
> ____________________________________________________________
>
> Don Massimo Nevola
>
> Sono appena tornato da dieci giorni vissuti in Sud America, dove ho
> partecipato Forum Social Mundial di Porto Alegre e ho visitato Buenos

Aires
> per rendermi conto direttamente di ciò che lì sta accadendo da fine
> novembre.
> Le due avventure sono profondamente legate.
> A Porto Alegre ho avuto la conferma sul Movimento del Social Forum. E' una
> delle grosse speranze cui si può aggrappare l'umanità del terzo millennio.

A
> Buenos Aires c'è aria di rivoluzione, sarebbe la prima del terzo

millennio.
> L'entusiasmo, la vitalità respirata a Porto Alegre difficilmente ha eguali
> riscontri non solo nei forum politici europei, ma nella stessa vita della
> Chiesa universale.
> Uno degli aspetti che mi ha più fortemente impressionato infatti è l'aver
> visto partecipare in modo informale, da spettatori e talvolta da relatori,
> ben 14 vescovi latino-americani: qualcosa di ancora prematuro per l'Europa

.
> E insieme ad essi oltre 400 tra preti, religiose e seminaristi, spesso
> mescolati nell'anonimato tra i partecipanti ai Forum Sociali. Nella
> maggioranza provengono da esperienze di "comunità di base", autentiche

anime
> sociali di tanta gente semplice, spesso semi-analfabeta che popola il
> continente latinoamericano. Mi piace sottolineare questo aspetto non solo
> per solidarietà "professionale", ma soprattutto perché da questo elemento,
> apparentemente marginale, vi scorgo un fattore di novità di questo nuovo
> Movimento: il bisogno di ritrovare forti motivazioni spirituali, anche se
> non necessariamente confessionali.
> Il Movimento presenta tante affinità con le masse contestatrici della fine
> anni '60, ma qualcosa di radicalmente nuovo emerge parlando sia con i
> giovani che con gli adulti di consumata militanza politica: non è più la
> stessa cosa. La crisi del socialismo reale, i fallimenti delle
> socialdemocrazie hanno messo in crisi la radice ideologico-motivazionale,
> così che urge ritrovare tutte le vie possibili per fondare solidamente la
> base dell'alternativa al sistema neo-liberista da tutti nel Forum

condannato
> come scellerato.
> Sulle magliette dei giovani, anche seminaristi, prevale il volto mitico di
> Che Guevara. La cosa mi suscita piacere e tenerezza, ma non mi lascia
> tranquillo. Se bisogna ritornare al modello rivoluzionario di 35 anni fa
> credo che ciò voglia significare due cose: la prima, che si avverte

urgente
> il bisogno di un cambio radicale delle strutture opprimenti presenti sulla
> Terra; la seconda, che fonda la mia preoccupazione, è la mancanza di

modelli
> di riferimento contemporanei. Fidel Castro, come anche il sub-comandante
> Marcos, ancora una volta non c'erano (forse non desiderati dalla

leadership
> del PT, massimo partito della sinistra brasiliana, che spera, evitando
> estremismi, di conquistare il ceto medio in vista delle prossime
> presidenziali), ed altri leader in giro non ce ne sono. Il Movimento si

sta
> costruendo una sua ben precisa identità, dove il simbolo del Che va ancora
> bene ma che non può racchiudere in sé i grandi fermenti di novità: il
> rifiuto della categoria "socialismo" (inteso nel duplice quadro sia dei
> modelli falliti nell'est-europeo, sia delle moderne social-democrazie
> liberali); la radicale avversione della categoria "guerra giusta". Il

volto
> del Che si staglia sul nuovo progetto della cosiddetta "libera
> autodeterminazione dei popoli" che, ripudiando la guerra come mezzo per la
> risoluzione dei conflitti (ma qui si oltrepassa anche la guerriglia,

propria
> della strategia e della storia personale di Guevara) guarda al futuro dei
> popoli con la creazione di economie solidali, tutt'altro che

consumistiche,
> e la nascita di società multietniche, basate sulla integrazioni delle
> ricchezze di cui ciascuna cultura è portatrice.
> Tutt'altro che consumistiche, dicevo. Ma qui occorre non solo un

correttivo
> al capitalismo, ma uscire definitivamente dalla logica stessa

dell'accumulo.
> E questo non si fa senza la riscoperta di una profonda identità umanista.

Di
> qui la necessità di un grande rilancio dell' interiorità. La

partecipazione
> commossa e affollatissima alle conferenze/testimonianze di Frei Betto e di
> dom Luciano Mendez, ne è stata la riprova. Come conciliare Santa Terresa

d'
> Avila con Che Guevara? Questo il nuovo paradosso. In occidente

probabilmente
> non riusciamo ancora a capirlo a fondo. Eppure Frei Betto propone proprio
> questo, e le folle di giovani in tripudio dimostrano non solo che il
> paradosso è possibile, ma che è un punto forza dell'anima del Movimento.

L'
> antropologia materialista si è rivelata profondamente asfittica e non

libera
> dal demone della "volontà di potenza". Solo una forte interiorità può

allora
> aiutare a perseverare nella lotta controcorrente, può aiutare a non

svendere
> per quattro soldi di aumento la solidarietà con chi lavora o è in cerca di
> lavoro. Lotta decisa, "senza perdere la tenerezza" (Che); impegno che non
> trema né demorde di fronte a qualsivoglia repressione reazionaria, perché

si
> è ebbri dello Spirito di vita, che rende tutti gli uomini fratelli (S.
> Teresa).
> Oltre il consumismo neo-liberista, allora. Ecco il futuro sostenibile.
> Questa in sintesi la prima, fondamentale, discriminate del Movimento.

Anche
> la seconda discriminante, quella del ripudio della guerra, si lega a

questo
> punto.Tutte le guerre, è risaputo, nascono infatti da meri interessi
> economici di parte.
> Volontà di potenza, volontà di dominio, volontà di sfruttamento: salgono
> tutte dallo stesso demone. E la violenza crudele, terroristica ne diventa
> strumento imprescindibile. Così è avvenuto per tutti gli "imperi", così
> avviene oggi in Medio Oriente, in Afganistan, nelle manipolate guerriglie
> tribali che uccidono la vita in Congo e in Sudan.
> Chi non fosse ancora in grado riconoscere i disastri compiuti dall'attuale
> modello socio-economico sarebbe fuori gioco, e non solo dall'accettazione
> nel Movimento (di qui i fischi ai vari parlamentari socialdemocratici
> convenuti) ma - secondo il giudizio che emerge dai tanti dibattiti (oltre
> 1200 i seminari di approfondimento) - dalle stesse prospettive di futuro

per
> la vita stessa del pianeta.
> Il Forum infatti alza forte la voce non solo in difesa dei tanti che non
> hanno voce (6 miliardi di uomini), svolgendo già solo per questo un'
> eccellente funzione di cassa di risonanza internazionale, ma anche in
> dimensione profetica nel delineare linee possibili di sviluppo sostenibile
> per l'intera umanità, paesi del primo mondo inclusi.
> E qui s'intreccia l'esperienza del Forum col confronto diretto che ho

avuto
> con i cittadini di Buenos Aires, in larga parte di ceto medio e piccoli
> risparmiatori. Non c'è bisogno di filmare la tragica realtà delle favelas
> (che pure non abbiamo mancato di vistare a Porto Alegre, apprezzandovi la
> splendida presenza animatrice dei francescani) o di riproporre il dramma

dei
> paesi sub-sahariani. Nella moderna Argentina, paese dalle enormi

possibilità
> anche sotto il profilo della tecnologia, si assiste oggi al fracasso
> drammatico della politica neo-liberista che tenta, si spera invano, di far
> pagare alla gente comune il danno delle privatazzazioni selvagge compiute
> dalle amministrazioni liberiste e conservatrici che qui, come dappertutto,
> si sono nutrite (e seguitano a farlo senza scrupolo) di corruzione e di
> sporadiche concessioni partenalistiche.
> Il popolo argentino sembra essersi svegliato da un torpore durato sessant'
> anni. Scendendo quotidianamente in piazza a difesa dei propri diritti
> civili, i cittadini di tutte le età rivelano l'intenzione di diventare
> protagonisti della propria organizzazione sociale. Ora sembra nasca qui

per
> la prima volta la democrazia. E' il popolo che spontaneamente si

organizza
> nei consigli di quartiere e organizza manifestazioni imponenti. E questo

non
> solo nella capitale ma un po' ovunque, in tutto il paese.
> Rompere col passato comporta l'esclusione, il netto rifiuto di lasciarsi
> guidare da qualsivoglia partito o istituzione tradizionale. Hanno tradito
> tutti. Anche la Chiesa qui, al contrario di quanto compiuto altrove come

in
> Brasile e Cile, è ai minimi di credibilità, essendosi troppo compromessa

con
> la dittatura. E se per essa è difficile risalire la china, l'impresa non
> appare più facile per i partiti storici della sinistra, anch'essi minati

dal
> virus della corruzione e dalla scarsa carica propositiva di alternative
> dimostrata fin ora.
> Il popolo dimostra volontà di autodeterminarsi, e la forza della "spallata
> di piazza" in pochi mesi ha fatto cadere tre presidenti. Tutto questo può
> essere bello a vedersi, ma anche qui ho trovato motivi di seria
> preoccupazione che conservo ancora nel cuore. Innanzitutto l'inizio della
> rivolta: sono stati toccati i risparmi di una vita. Secondo molti

basterebbe
> risarcire i danni sui conti corrente per spegnere le manifestazioni.
> Qualcuno rimpiange Peròn. Dove finirebbe la novità? In un neo-peronismo
> pienamente in linea con il FMI e gli interessi nordamericani?
> Nei giovani intervistati, il dubbio appare però superato. Certamente lo è
> nell'associazione delle Madri di Plaza de Mayo, e, con non poche riserve,
> pare lo sia anche nel neosindacato CTA. Ma queste giovani realtà avranno

la
> forza di guidare la sommossa popolare verso un nuovo progetto politico di
> autodeterminazione solidale del popolo argentino? Dall'esterno chi potrà
> appoggiarli, la socialdemocrazia di Jospìn o il PT brasiliano di Lula?

Cosa
> resta di Cuba?
> E il popolo del Social Forum?
> Certamente quest'ultimo appare il partner più credibile, così come lo è

per
> la causa palestinese e per il movimento Sem Terra. Debole referenza, ma
> intanto c'è; così come la rabbiosa voglia di cambiamento che attraversa
> oltre l'80% del popolo argentino.
>
> Ritorno in Europa più ricco in umanità, con più voglia di combattimento,

con
> più dubbi da risolvere soprattutto sul ruolo dell'Europa (e in essa della
> chiesa) circa i nuovi equilibri mondiali che si vanno delineando.
> Se la sfida, che già W. Brandt delineava nel suo rapporto del '79, è tra
> Nord-Sud, quale politica possiamo continuare a perseguire? Quella dei
> tatticismi di potere che potrebbe l'Europa ad essere solo l'altra gamba

del
> neo-liberismo?...
> Ma il Movimento new-global è giunto fortunatamente anche da noi. I primi
> martiri ne fecondano la crescita che a nessuno sarà facile fermare o
> inglobale in progetti "normalizzanti". Esso è un "segno dei tempi".

Sarebbe
> illusorio pensare di poterlo cavalcare per aumentare voti o, peggio

ancora,
> domare, incanalandolo in strategie di altri tempi. Il cavallino selvaggio
> accetta guide solo se conformi al suo DNA. A questo movimento ci si deve
> convertire.
> Quanto resta allora ancora della notte della speculazione selvaggia, della
> corruzione e della strategia della morte? C'è un alba di speranza?
> La sentinella del Movimento può ancora profeticamente rispondere: " se
> volete domandare, domandate, convertitevi, venite!" (Isaia 21,12).
>
>
>
>
>
>
> ---
> Il Granello di Sabbia è realizzato da un gruppo di traduttori e

traduttrici volontari/e e dalla redazione di ATTAC Italia
redazione@???
> Riproduzione autorizzata previa citazione e segnalazione del "Granello di

Sabbia - ATTAC - http://attac.org/"
>