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Szerző: cybergobbo
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Lettera a noi pacifisti
Non scenderò in piazza a manifestare, non parlerò ai dibattiti pubblici, non
scriverò lettere ai giornali. Mentre le bombe piovono sull'Afghanistan
uccidendo persone, scoperchiando tombe, polverizzando macerie antiche,
mentre i profughi più torturati del mondo muoiono di fame e di febbre se non
di mine o di bombe cluster, mentre infine la follia terroristica di Bin
Laden è splendidamente fecondata dalla follia terroristica dei nostri eletti
rappresentanti, io me ne starò a casa in silenzio. Ed è la cosa più giusta
da fare.

Il mio percorso di rifiuto della guerra è passato attraverso incontri forti:
Africa, 1994, mi trovo a scrivere una corrispondenza, ho il computer
portatile appoggiato al cofano di una jeep mentre coi piedi tento di non
calpestare le migliaia di brandelli di carne umana che mi circondano; a
pochi metri da me un militare solleva un polmone ancora aggrappato ai resti
di una clavicola. Copenaghen, 1996, Nestor mi dice che lui "sa" cos'é la
paura, l'ha incontrata durante 22 mesi di torture nelle carceri
dell'Uruguay, e precisamente il giorno in cui gli squadroni della morte gli
staccarono gli elettrodi dai piedi per attaccarli a quelli di suo figlio, di
quattro anni. Washington, 1999, parlo con un veterano del Vietnam che da 25
anni vive nel giardino di casa sua dentro una gabbia di bambù; è identica a
quella in cui fu rinchiuso dai Vietcong, ma la sua protesta è contro il
governo del suo Paese, che dal '74 gli rifiuta un'udienza.

E proprio col Vietnam in mente, domenica 7 ottobre sul treno che mi portava
a Roma e che rumoreggiava di chiacchiere sull'avvio delle ostilità, ho
sentito il nostro fallimento. Abbiamo fallito, in trent'anni di pacifismo
non abbiamo fermato una singola guerra, non abbiamo scoraggiato una singola
invasione, non abbiamo bloccato una singola covert-operation, o guerra
sporca. Ma peggio: non abbiamo convinto adeguatamente neppure una buona
minoranza della cosiddetta società civile. E ancora peggio: non abbiamo
impedito che i nostri Ipermercati vendessero e continuino a vendere, per
esempio, i frigoriferi della Westinghouse, che portano lo stesso marchio
delle armi più devastanti mai prodotte dal genere umano. Vi invito a leggere
oltre.

Mi si dirà: la lotta pacifista ha tempi storici, e in quanto "fede" non può
essere vincolata ad alcun rendiconto. Io credo che per ragionare in questo
modo ci si debba innanzi tutto trovare all'estrenità innocua dei fucili e
dei cannoni, perché chi si trova all'altra estremità, semplicemente muore. E
allora saremmo, a dir poco, scandalosi se ci rifiutassimo di chiederci: ma
che cosa abbiamo ottenuto in 30 anni di marce, di cortei, di seminari, di
assemblee, di volantinaggi? E soprattutto perché scendiamo ancora in piazza?
Non sarà forse che lo facciamo per spegnere la NOSTRA rabbia, per debellare
la NOSTRA frustrazione, per allontanare il NOSTRO rimorso? E non sarà per
caso che una volta placati rimorsi, rabbie e fustrazioni ci permettiamo di
evitare proprio la sconsolante rendicontazione sul vuoto dei nostri
risultati? Perché ripetiamo oggi, identiche fin negli striscioni, modalità
di impegno che sono vecchie di trent'anni? Esiste ancora in tutto
l'occidente un dentista col trapano a corda e puleggia? Noi che vorremmo
fermare le stragi planetarie siamo esenti da aggiornamento?

Rispondetemi: perché siamo fermi al Vietnam?

Bush decide la guerra? Si fa la guerra. E chi lo ferma? (RABBIA). Dobbiamo
per forza credere di essere "Le Nazioni Giuste" quanto invece abbiamo
toccato le vette dell'ignominia terroristica per 600 anni di storia
coloniale? Sì, la nostra opinione pubblica lo vuole credere. (PROSTRAZIONE).
La Ferrari mette a nero il musetto dei suoi bolidi per i nostri morti,
mentre tutto l'anno veste lo stemma della Shell sporco del sangue del
martire nigeriano Ken Saro-Wiva e di migliaia di Ogoni? Sì, e nessuno
obietta. (DOLORE). E dunque noi, i pacifisti, incapaci di reggere quella
rabbia, quella prostrazione e quel dolore corriamo in strada a lenirli nei
cortei, nelle assemblee, nei sit-in, sperperando così un'energia preziosa.
Ci liberiamo, e siamo a posto fino alla prossima volta. Fa la medesima cosa
il turista occidentale che si confronta col bambino storpio che chiede
l'elemosina a Calcutta; gli dà un dollaro e la stretta al suo stomaco si
allenta. No! Chiudi il portafogli e portati a casa, nel tuo salotto, quel
magone insostenibile, e usalo come fiamma che ti spinge e ti costringe ad
agire nel profondo del sistema. Allo stesso modo amici pacifisti, questa
volta mentre gli Afghani muoiono dilaniati, stiamo a casa e usiamo
l'insopportabile strazio del nostro cuore per costringerci PENSARE a nuovi
modi per veramente fermare le bombe.

Le luci delle candele della pace e i colori degli striscioni ci illuminano
di bellezza, ma fra le macerie di Kabul, nelle segrete dei torturatori, e
soprattutto nelle executive suites della Westinghouse, sono tragicamente
invisibili. Peggio: sono insignificanti.

Paolo Barnard
l'unica lotta che si perde e' quella che si abbandona.
(madri di plaza de mayo)