[ssf] interessante intervista sul controllo

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Author: andrea cegna
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Subject: [ssf] interessante intervista sul controllo
DAVID LYON
Sotto stretta videosorveglianza
Un'intervista con lo studioso David Lyon, autore del volume «Massima Sicurezza». Le tecnologie della sorveglianza e i modelli di controllo sociale dopo l'11 settembre, la guerra al terrorismo e lo scambio tra sicurezza e diritti civili e sociali
BENEDETTO VECCHI
Il suo è un lavoro certosino. Con pazienza, infatti, David Lyon censisce le vicende, i macchinari e le leggi che riguardano la sorveglianza. Poi, a intervalli di pochi anni, manda alle stampe libri che registrano cambiamenti e linee di tendenza della «società del controllo». La sua produzione è dunque un vero e proprio work in progress, sin da quando, con L'occhio elettronico (Feltrinelli), ha cominciato a porre con forza i rischi derivanti da un uso pervasivo delle «tecnologie della sorveglianza», mentre lo scambio scellerato tra sicurezza in cambio di una limitazione delle libertà civili è considerato il lato oscuro della società del controllo. Non solo c'è un'intrusione da parte degli stati nazionali e delle corporation nella privacy, ma vediamo affermarsi un modello di controllo sociale in cui le abitudini e l'analisi del Dna sono «mappate» per costruire appropriate silhouette categoriali. In altri termini sono elaborate un insieme di categorie di persone al fine di stabilire strategie di controllo statale sui singoli e per definire appropriate strategie di marketing da parte delle corporation (La società sorvegliata, Feltrinelli). Nel suo ultimo libro, Massima sicurezza (Raffaello Cortina, pp. 193, ? 19,80), David Lyon affronta invece i cambiamenti avvenuti nelle tecnologie della sorveglianza dopo l'11 settembre. Il suo è un giudizio amaro: lo scambio tra sicurezza in cambio della libertà è sempre più all'opera e solo a quattro anni dall'attacco alle Twin Towers si cominciano a scorgere accenni di contestazione significativa, cioè non condotta da gruppi «marginali», alla legislazione del Patriot Act.

In questo suo ultimo libro lei scrive che l'attacco alle Torri gemelle è un «evento» che rivela e, allo stesso tempo, accelera alcuni cambiamenti e processi che riguardano la società del controllo. Può spiegare cosa intende?

L'11 settembre è stato un evento tremendamente rivelatore di alcune tendenze nello sviluppo delle tecnologie della sorveglianza, ma non per le ragioni elencate dagli americani. L'attacco al World Trade Center è stato un tragico episodio che ha fornito la cornice per legittimare l'operato di molti governi attorno alla sicurezza e, al tempo stesso, ha favorito la crescita del «mercato della sicurezza». Non è certo una novità che i governi fossero molto cauti nell'incoraggiare l'uso massiccio delle tecnologie della sorveglianza, visto che incontravano l'opposizione dell'opinione pubblica, timorosa che il loro uso potesse violare il principio sacro del rispetto della privacy o limitare alcune libertà civili. Con l'11 settembre, tutti i timori e le riserve sono state però facilmente superate. Il crollo delle Torri gemelle ha infatti provocato reazioni del tipo «individua il nemico e colpiscilo», piuttosto che un approccio del tipo «comprendi e discuti». Solo partendo da questi elementi possiamo capire le guerre di rappresaglia in Afghanistan prima e in Iraq poi. Allo stesso tempo la logica della «difesa preventiva» ha esasperato il controllo sui confini nazionali al fine di impedire l'ingresso di potenziali nemici senza volto.

Lavoro attorno al tema della sorveglianza da molti anni e più passa il tempo e più sono convinto che ogni misura presa in nome della sicurezza nazionale ha come conseguenza un aumento della diffidenza dei popoli che sono stati vittime del colonialismo dei paesi occidentali. Anzi, dopo l'11 settembre questo colonialismo ha raggiunto livelli mai visti. Siamo però di fronte a un paradosso.

Viviamo in un mondo globalizzato dove i confini nazionali vengono considerati fattori sempre meno rilevanti: l'attacco alle Twin Towers li ha fatti però tornare in auge, anche se in forme indite rispetto al passato. Ad esempio, sono sì funzionali a regolare i flussi di uomini e donne e tuttavia conoscono una «deterritorializzazione». In altri termini, agiscono preventivamente, come dimostra l'interconnessione dei database elettronici costruiti su base nazionale al fine di stabilire le popolazioni a rischio di cui limitare la mobilità.

Lei sottolinea spesso che il modello del panopticon (i pochi che guardano i molti) e il synopticon (i molti che guardano i pochi) sono modelli complementari nelle politiche della sorveglianza. Che cosa intende?

Dal punto di vista delle tecnologie, il modello dei pochi che guardano i molti ha la sua base materiale nelle televisioni a circuito chiuso. Ovviamente molti altri tipi di archivi dedicati alla sorveglianza si basano sul modello panoptico, anche se in questo caso non c'è un occhio che scruta i comportamenti di un singolo: piuttosto i comportamenti - nel consumo o nelle preferenze religiose, sessuali - sono ricostruiti dall'assemblaggio dei dati individuali memorizzati negli archivi. Ma noi viviamo in un mondo in cui esistono molti tipi di «screening». Gli schermi della televisione sono infatti parte di un «processo synoptico» nel quale i molti guardano i pochi. Il mio punto di vista è che in mondo pervaso da tecnologie digitali molti fenomeni sociali e comportamenti collettivi hanno una loro rappresentazione mediatica che a sua volta li rafforza: in altri termini, i media sono uno specchio della realtà, ma l'immagine che danno di essa è sempre amplificata, con il risultato che operano una trasformazione della realtà sociale.

Se assumiamo l'11 settembre come uno spartiacque, possiamo dire come in quel caso i due modelli di controllo sia stati complementari. Da una parte, c'è stato un giro di vite all'insegna del modello panoptico - legislazione d'emergenza, richiesta, ottenuta, da parte della polizia di poter accedere ad alcuni database «privati» -, ma anche è stato il momento dove «i molti che guardano i pochi» ha raggiunto l'acme nei network televisivi. Certo, l'onda lunga emotiva del crollo delle Twin Towers a New York, che ha avuto nelle televisione il vettore attraverso il quale si è diffusa negli Usa e in molte parti del mondo, si è esaurita. E tuttavia è ancora usata per convincere la popolazione americana a sostenere la necessità di alcune misure repressive per prevenire il terrorismo.

Lei si dilunga su un paradosso, cioè che la società della sorveglianza è la condizione necessaria per la globalizzazione. E cita il legame, o meglio l'interdipendenza tra il «sospetto categoriale» e la «seduzione categoriale». La prima espressione riguarda alcuni gruppi della popolazione considerati «a rischio» - i migranti, alcune minoranze religiose o culturali -, la seconda indica invece i gruppi di persone che vengono continuamente monitorati in base alle loro attitudini di consumo. Non crede però che, sia il sospetto categoriale che la seduzione categoriale, rispondano alla stessa logica?

La società della sorveglianza è un prodotto della modernità. E non è necessariamente un suo prodotto demoniaco o oppressivo. Piuttosto è una realtà ambigua, contraddittoria, ambivalente potremmo dire. Infatti, i dispostivi del controllo sociale possono rendere più efficienti, piacevoli e sicuri alcuni aspetti della vita sociale. Allo stesso tempo, però, molte attività individuali sono monitorate e «tracciate», cioè vengono memorizzate, schedate. Prendiamo i trasporti. I sistemi di sorveglianza possono rendere più sicura la mobilità, cioè favoriscono una caratteristiche della globalizzazione: la libertà di movimento. E tuttavia alcune tecnologie sono usate per tracciare i movimenti delle persone, consentendo una limitazione di tale libertà. E' solo un esempio di questa ambivalenza che caratterizza la società della sorveglianza.

Per quanto riguarda il «sospetto categoriale», io penso a un processo nel quale i data base sono organizzate secondo criteri di classificazione di alcuni di gruppi di persone. Possono essere i cinesi, i chicanos, gli arabi, i neri, ma costituiscono categorie di persone che sono tracciate in base ad alcuni parametri stabiliti per via amministrativa, cioè politica. Il periodo seguito all'11 settembre è molto indicativo di questa tendenza a stabilire se una «categoria» sia «a rischio » o meno. Da allora, infatti, gli arabi e i musulmani in genere sono stati sottoposti a una speciale attenzione da parte della forze di polizia e non solo. Ma questa tendenza a classificare è patrimonio anche delle grandi corporation, le quali raggruppano gruppi omogenei di consumatori in base alle loro preferenze, individuando così i punti di forza, ma anche di debolezze delle loro strategie di marketing. Entrambi i processi hanno però lo stesso effetto: rafforzano e alimentano le disuguaglianze sociali.

Lei usa parole molto dure contro il Patriot Act. Infatti, nel libro afferma che la paranoia per il rischio terrorista accentua i caratteri illiberali della società della sorveglianza, alimentando le discriminazioni sociali e razziali. Siamo destinati a vivere in una società dominata dalla cultura del sospetto?

Parto da una constatazione: la sorveglianza è un'inevitabile esperienza sociale, in particolar modo in un mondo dove le relazioni sociali sono sempre più «mediate» da dispositivi elettronici. Inoltre, alcuni tipi di sorveglianza - quelli che avvalgono di tecnologie «dolci» e di un alto apporto di conoscenza - sono necessari per combattere il rischio reale di atti terroristi. Ma ciò che dobbiamo constatare è che la tendenza dominante nelle strategie di sorveglianza e controllo sociale rappresenta un pericolo per le libertà civili. Sono convinto che bisogna contrastare tale tendenza, non solo regolamentando l'uso dei dati, ma ponendo limiti rigidi nella loro raccolta.

Le ultime pagine del suo libro sono dedicata all'azione dei movimenti sociali contro le politiche di controllo sociale. Può descrivere le loro attività?

I temi della società della sorveglianza sono molteplici. Uno di questi è appunto il ruolo dei movimenti sociali nel contrastare la società della sorveglianza. Nel libro mi riferisco all'attività di alcuni gruppi sindacali per limitare il monitoraggio delle corporation sul lavoro e la vita dei propri dipendenti. Ma anche alle forme di boicottaggio e di opposizione di alcuni gruppi di consumatori alla raccolta dei dati sulle loro preferenze o di alcune organizzazioni per la difesa delle libertà civili sulla discriminazione di gruppi sociali sottoposti a controllo. E tuttavia va comunque ricordato che la resistenza alle politiche di controllo è sì diffusa, ma poco coordinata. Inoltre, è necessario comprendere cosa stia cambiando nelle pratiche della sorveglianza per trovare la strada e il modo per limitare il potere degli stati e delle imprese di raccogliere e usare i nostri dati personali. Ad esempio è sempre più urgente trovare il modo di limitare la vendita di dati personali, vendita che non riguarda solo alcune imprese, ma anche alcuni organizzazioni governative. In altri termini, bisogna esercitare una critica alla società della sorveglianza, perché la sicurezza è un fatto importante e che riguarda tutti