anche se molti di voi l'avranno gia' letto, giro alla lista
un commento di Stefano Rodota'(non propriamente un
radicale...) uscito oggi su repubblica, che a mio avviso
mette benissimo a fuoco il "clima pericoloso" (per la
democrazia) che le scellerate politiche di questi giorni
rispetto ai romeni stanno creando nel paese.
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UN CLIMA PERICOLOSO
STEFANO RODOTÀ
l'aggressione di ieri sera contro un gruppo di romeni
dimostra che è avvenuto qualcosa che i pessimisti
sentivano nell'aria. Quando sono tanto forti le emozioni, e
nessuno le raffredda e troppi le sfruttano, non soltanto
diventa difficile trovare le risposte giuste, ma si
esasperano i conflitti.
Da un caso gravissimo, l'uccisione di Giovanna Reggiani, si
è passati con troppa rapidità all'indicazione di
responsabilità collettive. L'assassinio è quasi finito
in secondo piano, e l'attenzione è stata tutta rivolta a
documentare una sorta di incompatibilità tra la nostra
società e la presenza romena, insistendo sulla percentuale
di reati commessi da persone provenienti da quel paese. In
un clima sociale che si sta facendo sempre più violento,
le premesse per l'apertura della caccia al romeno,
purtroppo, ci sono tutte.
Così non basterà condannare l'accaduto. Le risposte
istituzionali sono già venute, e sarebbe sbagliato
chiederne ulteriori inasprimenti, che darebbero la
sensazione che alla violenza si debba reagire solo con la
violenza sì che, se lo Stato arriva tardi o in maniera
ritenuta inadeguata, tutti sarebbero legittimati a farsi
giustizia da sé. Alla politica si devono chiedere non
deplorazioni, ma misura; non ricerca di consenso, ma di
soluzioni ragionate.
Da anni, da troppi anni, siamo prigionieri di un uso
congiunturale delle istituzioni, che porta a misure che
rispondono ad emozioni o a interessi di breve periodo più
che alla realtà dei problemi da affrontare. E' un rischio
che stiamo correndo anche in questi giorni, mentre avremmo
bisogno di analisi non approssimative e testa fredda
nell'indicare le via d'uscita. Di fronte alle tragedie
nessuno dovrebbe fare calcoli meschini.
Il presidente della Repubblica ha sottolineato che le
questioni dell'immigrazione esigono responsabilità comuni
dell'Unione europea. Il presidente del Consiglio si è
messo in contatto con il primo ministro romeno. Dalle parti
più diverse si è sottolineata la necessità di un
controllo del territorio e di una attenzione per le
condizioni in cui vivono gli immigrati. E' stata proprio una
donna romena che ha consentito l'immediato arresto
dell'assassino.
Perché allineo questi fatti? Perché, messi insieme,
dimostrano la parzialità della tesi di chi pensa che sia
sufficiente inasprire le pene, cancellare le garanzie, far
di tutt'erbe un fascio, sparare nel mucchio. "Facimmo
‘a faccia feroce" è una vecchia tecnica di governo,
ma è esattamente il contrario di quel che serve in
situazioni come questa. E' indispensabile, invece, una
strategia integrata, fatta di cooperazione internazionale,
di legalità a tutto campo, di efficienza degli apparati di
sicurezza, di misure per l'integrazione, di politica delle
città. Ed è indispensabile una politica volta a
promuovere la fiducia degli immigrati: senza la
collaborazione di quella donna, senza la rottura dello
schema dell'omertà (purtroppo così forte anche nella
nostra cultura), l'assassino non sarebbe stato individuato
così rapidamente. In ogni società la fiducia è una
risorsa essenziale. Da soli, i provvedimenti di ordine
pubblico non ce la fanno, non ce l'hanno mai fatta.
Essere consapevoli di tutto questo non è cattiva
sociologia, ma buona politica, anzi l'unica politica
possibile. Proprio quanti si preoccupano dell'efficienza
dovrebbero esigere che si facciano passi concreti in quelle
direzioni. Proprio chi invoca la legalità deve sapere che
questa non è divisibile, ed è stato giustamente notato
che uno dei meriti del "pacchetto sicurezza" è nell'aver
previsto anche una nuova disciplina del falso in bilancio.
Proprio chi fa professione di garantismo deve mostrare
coerenza, soprattutto nei momenti difficili: non si può
essere garantisti a corrente alternata.
Non sto sostenendo che il problema è "ben altro". Cerco di
dire che non ci si può mettere la coscienza in pace con un
decreto e una raffica di espulsioni, dando così
all'opinione pubblica la pericolosa illusione che il
problema sia risolto. Qualche sera fa, intervenendo in una
trasmissione televisiva, Pier Luigi Vigna, certo non
imputabile di atteggiamenti compiacenti verso chi viola la
legalità, ha riferito la risposta di un responsabile
dell'ordine pubblico ad una sua domanda su dove fossero
finiti i lavavetri scomparsi dalle vie di Firenze: «Stanno
a rubare». E' l'effetto ben noto a chi ha indagato sulla
scomparsa o la diminuzione dei reati nelle aree
videosorvegliate: semplicemente i comportamenti criminali si
erano spostati nelle zone vicine. Ecco perché, se davvero
si vuole uscire dalla violenza e vincere la paura, nuove
norme contenute in un decreto possono essere un punto di
partenza, vedremo fino a che punto accettabile.
Guardando solo agli inasprimenti della legislazione, anzi,
si finisce col distogliere lo sguardo dalla realtà. Più
di una inchiesta di questo giornale, ultima quella di
Giuseppe D'Avanzo, ha documentato il degrado urbano, le
terribili condizioni di vita degli immigrati. Si può
davvero pensare che il problema si risolva con una politica
delle ruspe e degli "allontanamenti"? Con una tolleranza
zero che poi non riesce neppure ad essere tale se le forze
di polizia non sono messe in grado di un controllo
intelligente e mirato del territorio, se i nuovi poteri dei
sindaci finiscono con l'indirizzare la loro attenzione verso
una esasperazione del momento dell'ordine pubblico invece di
mettere al centro gli interventi strutturali, complici le
difficoltà economiche dei comuni? Si può certo contare
sull'effetto dissuasivo di una massiccia ondata di
espulsioni. Ma quanto potrà durare? E quali saranno gli
effetti reali e i prezzi della nuova disciplina?
Il decreto riprende lo schema delle norme di attuazione
della direttiva comunitaria del 2004 sul diritto di
circolazione e di soggiorno dei cittadini comunitari (romeni
compresi), in vigore dal marzo di quest'anno, con due
significative integrazioni. La prima riguarda l'attribuzione
del "potere di allontanamento" non più al solo ministro
dell'Interno, ma pure al prefetto (una figura di cui si
continua chiedere la scomparsa e che, invece, ottiene così
una nuova e forte legittimazione). La seconda, ben più
incisiva, consiste nell'ampliamento delle cause che
permettono l'allontanamento del cittadino comunitario,
riassunte nella formula dei "motivi imperativi di pubblica
sicurezza" che derivano dall'aver "tenuto comportamenti che
compromettono la tutela della dignità umana o dei diritti
fondamentali della persona umana ovvero l'incolumità
pubblica, rendendo la sua permanenza sul territorio
nazionale incompatibile con l'ordinaria convivenza".
Malgrado riferimenti altisonanti come dignità o diritti
fondamentali, siamo di fronte ad una formula larghissima,
nella quale possono rientrare le situazioni e i
comportamenti più diversi. Come sarà interpretata?
Qui gioca il clima in cui il decreto è stato approvato.
Non "necessario e urgente" fino alla sera prima (sono questi
i requisiti di un decreto), il provvedimento lo diventa dopo
il brutale assassinio di Roma. Poiché si deve supporre che
il governo conoscesse già i dati riguardanti i reati
commessi dai romeni, sui quali si è tanto insistito in
questi giorni, la conclusione obbligata è che si è
utilizzato lo strumento del decreto unicamente per
rispondere all'emozione dell'opinione pubblica. E la sua
applicazione rischia di essere guidata dalla stessa
ispirazione, rendendo inoperanti le garanzie necessarie per
evitare che venga travolta una libertà essenziale del
cittadino europeo.
La pressione dell'opinione pubblica non è stata
alleggerita dal decreto. Al contrario, è stata
ulteriormente legittimata, sì che bisogna attendersi che
continuerà nei confronti dei prefetti. Già si annunciano
liste di migliaia di persone da allontanare: questo
renderà difficilissimo motivare in modo adeguato ciascun
singolo provvedimento. E i debolissimi giudici di pace, che
dovrebbero controllare questi provvedimenti, non hanno i
mezzi per farlo in modo adeguato, sì che non se la
sentiranno di pronunciare un no. Per non parlare di un
successivo ricorso al tribunale amministrativo contro
l'allontanamento, che quasi nessuno potrà concretamente
proporre. La garanzia giurisdizionale, essenziale in uno
Stato di diritto, rischia così d'essere concretamente
cancellata.
Alle norme del decreto bisogna guardare con distacco e
preoccupazione. Con distacco, perché non verrà solo da
esse la soluzione di problemi che, com'è divenuto
evidentissimo proprio in questi giorni, esigono interventi
di altra qualità per rispondere alle legittime richieste
dei cittadini in materia di sicurezza. L'ordinaria
convivenza, alla quale il decreto si riferisce, non è un
qualcosa da salvaguardare, ma da ricostruire con
responsabilità e azioni comuni, di cui gli italiani devono
essere i primi protagonisti. Con preoccupazione, perché le
norme del decreto e il clima in cui nasce ci spingono in una
direzione che aumenta la distanza dall'"altro", che
favorisce la creazione di "gruppi sospetti", abbandonando la
logica della responsabilità individuale.
Serve, davvero con "necessità e urgenza", un'altra forma
di tolleranza zero. Quella contro chi parla di "bestie", o
invoca i metodi nazisti. Non è questione di norme. Bisogna
chiudere "la fabbrica della paura". E' il compito di una
politica degna di questo nome, di una cultura civile di cui
è sempre più arduo ritrovare le tracce. Un'agenda
politica ossessivamente dominata dal tema della sicurezza
porta inevitabilmente con sé pulsioni autoritarie.
Ricordiamo una volta di più che la democrazia è
faticosa, ma è la strada che siamo obbligati a percorrere.
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Laura Testoni
Presidenza Arci Genova
Settore Solidarietà internazionale e Pace
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