[NuovoLab] Franco Russo su Afganistan

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Autor: antonio bruno
Data:  
Para: aderentiretecontrog8
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Asunto: [NuovoLab] Franco Russo su Afganistan
liberazione 24.7.06

Considerazioni su Afghanistan, governo, voto, dopo gli interventi di Pietro
Ingrao
Rifondazione comunista, pacifismo e movimenti:
la costruzione di una strategia comune

Franco Russo

Quando leggo o ascolto persone della levatura di Pietro Ingrao mi si
destano immediati sentimenti di rispetto si fa viva l’attenzione, in quanto
testimone di valori e al contempo sempre acutissimo analista politico.
Anche questa volta sulla guerra e sul governo gli interventi di Ingrao, che
ascoltai e applaudii al palazzo dell’Eur all’XI congresso del PCI (quello
del dissenso), illuminano dilemmi e propongono delle scelte nette – come ci
si aspetta da un leader politico.
Due sono le considerazioni Ingrao, svolte su La Stampa e manifesto. La
prima è che, senza gerarchie tra guerre, occorre situare l’Afghanistan nel
quadro dei conflitti regionali e mondiali, anche per non perdere di vista e
sottovalutare la fine della missione in Irak e il nuovo tragico scenario
del Medioriente; la seconda è il richiamo alla partecipazione alla
coalizione di governo, che impone la necessità di costruire una volontà
comune fra i membri dell’alleanza per determinare punti di incontro.
Ne discende la necessità che non si usi il ‘valore al margine’ pochi voti
al Senato per rovesciare l’espressione della linea
RC, decisa democraticamente dalla maggioranza che ha il diritto di
affermarla nelle sedi parlamentari. Quest’ultima considerazione pone
un’esigenza reale che deve essere bilanciata con quella del diritto al
dissenso, e i nostri parlamentari devono trovare i modi per tentare di
conciliare le due istanze, impresa non facile ma possibile.
Ho sostenuto – anche esprimendo il mio dissenso sulle missioni alla Camera
tanto da dire sì solo al ritiro dall’Irak e da
votare contro la seconda parte dell’articolo 2 del disegno di legge (e,
poi, di non votare nel complesso le missioni) – che in
RC non c’è divisione sui valori pacifisti e sull’obiettivo del ritiro delle
truppe dall’Afghanistan così come sulla verifica
nelle sedi internazionali di tutte le missioni (come stabilito dalla
mozione di indirizzo). Per questo è tanto più proficuo discutere con Pietro
Ingrao che si pone appunto sul piano delle scelte politiche, dato che sul
comune impegno a seguire e
realizzare i principi pacifisti non può esserci tra di noi dubbio alcuno.
Di persona accompagnai Ingrao e Scalfaro alla manifestazione del 15
febbraio 2003, due figure emblemi dell’articolo 11 della Costituzione.
La domanda che mi ha ossessionato per tutte queste settimane è stata: come
mai il 30 giugno in Consiglio dei ministri,
proprio per determinare successivamente un punto d’incontro fra i membri
dell’alleanza di governo, Rc non ha partecipato al voto, o fatto apporre
una riserva, sulle missioni? Come mai fin d’allora ha dato per ‘chiuso’
l’accordo, addirittura prima che si scrivesse nero su bianco la mozione di
indirizzo? Come mai non si è attivata, non tanto la ricerca del consenso,
quanto la mobilitazione dei soggetti pacifisti per far pesare la loro
influenza nella determinazione del ‘punto d’incontro fra i membri
dell’alleanza di governo’? E come mai il non voto è stato esercitato dopo
pochi giorni sul Dpef?
Una guerra non vale un Dpef? Non sarebbe stata questa scelta del non voto
in Consiglio dei ministri un modo per manifestare
in modo trasparente, prima ancora che il dissenso, il ‘travaglio’ di Rc
sulla questione afgana? Così non si sarebbe dato
al partito, e anche ai soggetti pacifisti, il tempo dell’elaborazione delle
scelte, al di là dell’esito finale del voto favorevole o contrario al
disegno di legge?
Abbiamo chiuso in fretta, mettendo in difficoltà il partito e abbiamo
rischiato di far divenire spettatori, o peggio sostenitori
di questa o quella scelta parlamentare, i pacifisti. Dunque è venuto a
mancare proprio la spinta a ricercare un punto d’approdo più avanzato,
quello per esempio della fine della missione Enduring freedom.
La seconda considerazione di Ingrao è di ‘situare’ l’Afghanistan per dargli
la giusta dimensione.
Ha perfettamente ragione dinnanzi alla tragedia della distruzione
sistematica di beni e persone in Libano e dell’uccisione dei civili a Gaza
e a Haifa; sempre ormai nelle guerre contemporanee non si attaccano gli
eserciti: ogni persona diviene il bersaglio delle armi. Mi permetto di
richiamare, però, il fatto che in Afghanistan opera la Nato con la guida
della missione Isaf e che
questa guerra è, ancor più di quella del Kossovo, al di fuori dello spazio
individuato dallo
Statuto dell’Alleanza nordatlantica.
In Afghanistan sta facendo le prove la nuova Nato, quella definita negli
accordi di Washintgton del 1999, mai sanciti da un voto parlamentare. Deve
l’Italia mettere in discussione da subito, con atti e non solo con
propositi, la nuova proiezione geopolitica della Nato: come farlo se non
segnando una discontinuità proprio nel teatro di guerra afgano?
Rina Gagliardi ha con ragione parlato di ‘permeabilità’ del governo
dell’Unione alle istanze dei movimenti, tanto più permeabile quanto
maggiori sono le loro autonomia e pressione. Abbiamo tutti/e detto che
questa esperienza di governo è diversa dalle precedenti, più o meno
recenti, quando i movimenti, le associazioni e i sindacati sono stati
chiamati a sostenere il ‘governo amico’, trasformandosi in strumenti di
normalizzazione dei conflitti. Nessuno è portatore della soluzione giusta di
come gestire le relazioni tra governo e movimenti in questa fase; siamo
alla ricerca, alla sperimentazione purtroppo in corpore vile, e non in un
laboratorio.
Ogni errore può essere perciò fatale. Non è dato usare, però, teorie come
se fossero mots d’esprit per sostenere le proprie tesi. Ciò mi pare capiti
a Giovanni Russo-Spena quando afferma su “Il manifesto” che in parlamento
"essere pacifisti significa solo aprire dei ‘varchi’" – e, fin qui, forse
bene –, per poi aggiungere che "non può entrarci la forza etica della
nonviolenza, la forza del pacifismo come prospettiva di un mondo senza
guerra e armi. Il parlamento è pur sempre la rappresentazione borghese
della democrazia" (22 luglio, p.6). Qui commette due errate valutazioni. La
prima, quella più grave, è che nel parlamento
italiano devono, e non possono non, entrare le ‘motivazioni pacifiste’
perché è il famosissimo e citatissimo articolo 11 a
imporre che le deliberazioni legislative rispettino il vincolo pacifista:
il parlamento in una democrazia costituzionale deve
essere guidato dai principi della Carta, che sono precettivi e non sono
lasciati per la loro attuazione alla libera determinazione
politica del legislatore. Finora infatti si è fatto ricorso a escamotages
per evitare l’applicazione dell’articolo (uno per tutti: ‘missioni
militari’ e non ‘guerre’). Non faremo niente in parlamento per ricondurre
le sue deliberazioni al rispetto del principio pacifista dell’articolo 11?
I valori sono sovrani, come ci ricorda l’attuale giudice della Corte
costituzionale Gaetano Silvestri,
e le maggioranze politiche sono tenute a rispettarli. Le decisioni
legislative finora adottate sulle guerre sono incostituzionali,
abbiano o meno la ‘copertura’ internazionale. La seconda valutazione quella
sulla ‘rappresentanza borghese’ il sapore di un’affermazione estremista –
il parlamento borghese dunque intrinsecamente limitato (da abbattere,
dunque?). A un giurista così fine, che queste cose le insegna, spiace
ricordare che la democrazia costituzionale è diversa dalla ‘Stato
legislativo’ esistito fino alla Seconda guerra mondiale: nelle democrazia
contemporanee, sicuramente quella italiana, la Costituzione incorpora
valori che limitano legislatori, che non possono decidere ad arbitrio,
essendo strettamente ‘legati’ ai principi costituzionali, e che hanno
dovere di attuarli. Quello pacifista attende, purtroppo, ancora la propria
attuazione. Nessuno è portatoredella soluzione
giusta di come gestire le relazioni tra governo e movimenti in questa fase
Abbiamo chiuso in fretta, mettendo in difficoltà il
partito e abbiamo rischiato di far divenire spettatori, o peggio
sostenitori di questa o quella scelta parlamentare, i pacifisti