Smettiamo di crescere
di Umberto Galimberti [14/09/2005]
Fonte: HYPERLINK "
http://www.ariannaeditrice.it/www.repubblica.it"La
Repubblica
Smettiamo di crescere
Umberto Galimberti
Che cosa prova la gente a diventare collettivamente più povera? Non
parlo dei poveri che il fisco risparmia e neppure di quelli per i quali
200 milioni di euro equivalgono ai nostri 200 euro, ma di quella classe
media che, essendo diventata negli ultimi decenni la classe di tutti, ha
finito per dissolvere perfino le rivendicazioni di classe, sostituendole
con le rivendicazioni di categoria.
Si può sempre dire che un po´ di povertà non fa male, raddrizza i
costumi che abbiamo spinto un po´all´eccesso, spopola i ristoranti dove
la troppa gente non riesce più a scambiar parola, riduce il traffico che
ha trasformato le vie della nostra città in un unico grande parcheggio,
allenta la morsa dei weekend forzati, assottiglia, nelle agenzie di
viaggio, le folle di quanti pensano che basta cambiar cielo per cambiar
animo.
Le discoteche chiuderanno qualche ora prima, alcuni giovani vedranno
ridotte le loro chances di finire direttamente al cimitero, chances che
purtroppo aumenteranno per quanti non riusciranno a tener dietro al
costo dei farmaci, o più semplicemente alla qualità degli alimenti a cui
è da addebitare quel prolungamento della vecchiaia che in Occidente
siamo soliti chiamare allungamento della vita.
Eppure, nonostante questi vantaggi secondari, un senso di inquietudine
pervade sia i singoli individui sia le imprese che si sentono impotenti
a modificare l´andamento dell´economia la quale, per effetto della
globalizzazione e forse della supremazia dell´aspetto finanziario (e
virtuale) su quello produttivo (e reale), sembra sia divenuta qualcosa
di trascendente, qualcosa di governato da un dio ignoto, i cui disegni
nessuno davvero conosce.
Tutto ciò comporterà, come dicono gli economisti, un rallentamento della
crescita, quando non addirittura una crescita zero. E qui siamo a quella
parola subdola: «crescita», che gli economisti applicano sia ai paesi
diseredati che raccolgono tra l´altro i quattro quinti dell´umanità, sia
ai paesi già sviluppati che nonostante ciò «devono crescere». Fin dove?
E a spese di chi? E a quali costi ambientali? Qui l´economia tace perché
il problema non è di sua competenza, e con l´economia tacciono anche le
voci degli uomini che alle leggi dell´economia si devono piegare. Quando
dico «economia» non dico solo agricoltura, commercio, industria e
finanza, ma dico soprattutto mentalità diffusa, modo di sentire,
categoria dello spirito del nostro tempo, perché questo è diventato, nel
modo di pensare e di sentire di tutti, l´imperativo categorico della
crescita.
Figli come siamo di padri, che a loro volta sono cresciuti sul lavoro
dei nonni, siamo ormai alla terza o quarta generazione che cresce con un
ritmo che la storia non ha mai conosciuto. La categoria della crescita è
così diventata una forma mentis, uno stato d´animo, un rimedio
all´angoscia, una garanzia per sé e per i propri figli, una caparra per
il futuro, per cui, se per effetto di Maastricht, se per mettere in
ordine i conti, se per una finanziaria dura questa speranza nella
crescita si affievolisce accade una paralisi del pensiero, una
confusione del sentimento, un´ansia per il futuro, un senso di
inquietudine come quando sugli aerei si infila un vuoto d´aria e tutti
composti ostentiamo quella tranquillità smentita dai brividi del nostro
ventre che però avvertiamo solo noi.
E così ciascuno per sé sente il brivido della crescita zero a cui non sa
con che strumenti reagire, soprattutto se ha il sospetto che la crescita
zero sarà sempre più il nostro futuro, non solo perché non possiamo
continuare a pensare che i quattro quinti dell´umanità continuino a
sacrificarsi per la nostra crescita, ma perché quando la crescita non ha
altro scopo che continuare a crescere, è l´uomo stesso del mondo
privilegiato a divenire semplice «funzionario» di questa idea fissa che,
se diventa lo scopo collettivo della vita di tutti, affossa e
seppellisce il «senso» della vita, il suo sapore, il suo significato per
noi.
Se in cambio dei soldi che toglie dalle nostre tasche, la crescita zero
ci desse l´opportunità concreta di incominciare a riflettere
sull´assurdo ritmo che aveva acquistato la nostra esistenza, sulla
qualità della nostra comunicazione ormai troppo mediata, sulla natura un
po´ ambigua del nostro amore fatto ormai di sole cose, e soprattutto sul
fatto che regolare tutto sul modello di una crescita all´infinito ha
parentela con l´assurdo, allora anche la crescita zero, che finora tocca
solo i nostri soldi e non la nostra pelle o la dignità dell´uomo come
ancora accade in troppe parti del mondo, può essere accettata come una
buona occasione per raddrizzare non solo il nostro costume, ma anche la
qualità del nostro sguardo sulla vita e sul mondo.
Ciò può avvenire incominciando magari a rinunciare all´individualismo
sfrenato e aggressivo degli ultimi decenni, per privilegiare il «noi»
rispetto all´«io». Il noi del volontariato, della reciproca assistenza,
della familiarità del borgo rispetto all´anonimato della metropoli, il
noi della convivialità, dei comportamenti virtuosi in ordine alla
circolazione stradale, alla scelta e al consumo dei cibi, alle condotte
a rischio, agli stili di vita.
Valori non economici, dettati non dalla rassegnazione di chi è
consapevole di non poter controllare o modificare l´andamento
dell´economia, ma dal rifiuto a sacrificare la propria esistenza al mito
della crescita, che visualizza gli uomini solo come produttori e
consumatori. Con l´aggravante che in una società che visualizza se
stessa solo in termini di sviluppo e di crescita, il consumo non deve
essere più considerato, come avveniva per le generazioni precedenti,
esclusivamente come soddisfazione di un bisogno, ma anche, e oggi
soprattutto, come mezzo di produzione. Là infatti dove la produzione non
tollera interruzioni, le merci «hanno bisogno» di essere consumate, e se
il bisogno non è spontaneo, se di queste merci non si sente il bisogno,
occorrerà che questo bisogno sia «prodotto».
In una società opulenta come la nostra, dove l´identità di ciascuno è
sempre più consegnata agli oggetti che possiede, i quali non solo sono
sostituibili, ma «devono» essere sostituiti, può darsi che si cominci ad
avvertire, sotto quel mare di pubblicità che ogni giorno ci viene
rovesciato addosso, una sorta di appello alla distruzione, una forma di
nichilismo dovuto al fatto, come scrive Gunther Anders, che: "L´umanità
che tratta il mondo come un mondo da buttar via, tratta anche se stessa
come un´umanità da buttar via"
Se nel sottosuolo della nostra anima collettiva si fa strada questa
sensazione che muta la gerarchia dei nostri pensieri e la forma dei
nostri comportamenti, anche il profilo del lavoro potrebbe mutare. Oggi,
infatti, come ci ricorda Franco Totaro nel suo bel libro Non di solo
lavoro, sotto l´imperativo della crescita il lavoro è visualizzato nel
solo ambito dell´economia, e ciò vuol dire che solo l´economia è in
grado di dare espressione all´uomo, il quale non avrebbe come suo
riferimento altro orizzonte di senso se non quello determinato dal fare
produttivo. A sua volta il lavoro, non avendo altra finalità se non
quella di concorrere all´incremento infinito della produzione non
sarebbe più il luogo in cui l´uomo, realizzandosi, incontra se stesso,
le sue capacità, le sue ideazioni, l´attuazione della sua progettualità,
ma solo il luogo in cui l´uomo tocca con mano la sua «strumentalità», il
suo essere semplice appendice delle macchine, che nel loro insieme
compongono l´apparato tecnico-economico, interessato solo al proprio
potenziamento e non alle sorti dell´uomo.
Perché allora non passare gradatamente dal «lavoro come produzione» (che
ha in vista solo la sua crescita esponenziale senza ragione e senza
perché) al «lavoro come servizio» dove la produzione non ha in vista
solo beni e merci (di cui al limite non sappiamo neanche cosa farcene,
se non fosse per i bisogni e i desideri indotti, cioè a loro volta
prodotti), ma anche erogazione di tempo, di cura, di relazione.
I profili lavorativi che potrebbero nascere da questa nuova
visualizzazione del lavoro (di cui la società già sente a livello
massiccio l´esigenza, se dobbiamo giudicare dal gran numero di persone
che si dedicano al volontariato) sarebbero profili lavorativi che
potrebbero trovare non solo una reale e massiccia domanda, ma anche un
significativo riconoscimento economico, se l´economia, che pensa sempre
e solo alla produzione, sapesse diversificare i suoi prodotti e
incominciare a produrre non solo merci e sempre più merci, ma anche e in
misura crescente servizi per la persona e per la relazione tra le
persone.
Nel mondo dell´opulenza compriamo, in modo maniacale merci e sempre più
merci per compensare la depressione che ci deriva dalla mancanza di
relazioni, che siano vere e non solo funzionali come esige la logica del
lavoro. Non sarebbe impossibile invertire la tendenza, perché la
felicità, nonostante la pubblicità vi alluda, non ci viene dall´ultima
generazione di telefonini o di computer, e più in generale di
«prodotti», ma da uno straccio di «relazione» in più che il lavoro come
servizio (e non solo come produzione) potrebbe incominciare a garantire.
Fonte:
www.repubblica.it
2.09.05
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