[Lecce-sf] Re: [Lecce-sf] Intorno al silenzio sociale sull'i…

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Autor: forumlecce@inventati.org
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Temat: [Lecce-sf] Re: [Lecce-sf] Intorno al silenzio sociale sull'ingiustizia e l'infelicità
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Cc: "città plurale" <lecce_cittaplurale@???>
Sent: Tuesday, June 10, 2003 10:46 PM
Subject: [Lecce-sf] Intorno al silenzio sociale sull'ingiustizia e
l'infelicità


> In tre articoli. uno scambio:
>
> Per vincere
> di Luisa Muraro
> (Unita', 7 giugno)
> ----------------------
> Un aspetto per volta
> di ROSSANA ROSSANDA
> (Il Manifesto, 8 giugno)
> ------------------------------
>
> No, non vediamo un aspetto per volta
> di LUISA MURARO
> (Il Manifesto, 10 giugno)
>
> ________________________________________
>
> Per vincere
> di Luisa Muraro
> (Unita', 7 giugno)
>
> Ci sono di quelli che dicono: lasciamo perdere le polemiche, il problema è
> non perdere una sola occasione per battere la destra al governo. Li
> capisco, però penso: non basta proporsi il risultato elettorale, per
> vincere bisogna proporsi qualcosa di più e di meglio. Per vincere, bisogna
> aprire un orizzonte che, per molti, non sappiamo quanti, si è chiuso con

la
> fine del comunismo. Non vale solo per quelli che sono stati comunisti. E
> non occorre essere (stati) comunisti per capirlo.
> Non so se chi mi legge ha visto Tutto o niente di Mike Leigh. E' un film
> ambientato in un'anonima periferia inglese, duro ma coinvolgente e vero.
> Non racconta fatti atroci, non parla di gente marginale o esclusa, parla

di
> persone che tirano avanti avendo un lavoro, una famiglia, qualche scampolo
> di vita sociale. Una settimana fa, il direttore di questo giornale gli ha
> dedicato un lungo editoriale, Le anime morte della politica. Diceva:

questo
> film contiene una rivelazione che ci interessa tutti, parla di gente che

la
> politica ha abbandonato del tutto, come un mare prosciugato da cui sono
> stati ritirati progetti, programmi, ideali, militanza, partecipazione.
>
> Sono molto d'accordo con questa lettura e quello che sottintende. Ma ho
> un'aggiunta da fare, che riguarda il finale. Il direttore non lo commenta,
> ma dal finale dipende il senso del titolo, Tutto o niente. A un certo

punto
> capita che uno dei protagonisti, un tassista sempre malmesso, mite e
> tremendamente scoraggiato, tiri su una cliente per una lunga corsa e che
> lei abbia voglia di fare conversazione. Lei lo interroga, lui guida e
> parla, lei lo ascolta. Parlando, capisce quello che manca nella sua vita,
> quello che la fa "semivuota". Non lo dice alla cliente, lo dirà alla
> moglie, dopo molte ore di assenza da casa. Non è niente di quello che il
> film faceva supporre, tipo lo squallore dei cortili, la ristrettezza
> dell'appartamento, la disoccupazione del figlio: la sua pena è avere perso
> l'amore della sua compagna. Si indovina che in quelle ore ha pensato di
> farla finita: tutto o niente. La storia finisce che i due si parlano, in
> lei si scioglie il groppo di risentimento che aveva verso l'uomo e tornano
> a volersi bene, come agli inizi e forse di più.
>
> Dal finale dipende il senso del titolo e, aggiungo, dell'intero film, però
> vediamo come. Con quel finale, non si tratta più di un film di denuncia.

La
> morale politica non la tiriamo noi che guardiamo il film, ce la insegnano

i
> suoi personaggi. Questa gente "abbandonata dalla politica", che s'ingegna

a
> sopravvivere con un'enorme fatica quotidiana cui il regista ci fa
> partecipare, non chiede la nostra compassione né aspetta la nostra
> indignazione. E, per finire, sono loro che ci insegnano la via d'uscita.

E'
> giusto che sia così. Non è più tempo di fare denunce in vista di suscitare
> un'indignazione e una mobilitazione delle coscienze. Le mediazioni che una
> volta agivano in questi casi, sono ormai estinte. Ero bambina e ricordo il
> generoso fervore con cui il mio paese si mobilitò per dare ospitalità ai
> profughi del Polesine. Oggi ho una casa tutta mia e non ci faccio dormire
> persone senza casa, neanche d'inverno. Io non sono cambiata, è cambiata la
> civiltà.
> Ma l'amore sarebbe la via d'uscita? Non lo so. Certo, ci vuole qualcosa

che
> ci sbilanci, da dentro. Ci vuole un "movente" vero, che ci schiodi dalla
> ripetizione. La razionalità tutta e solo laica, per dire: ragionante e
> calcolatrice, non ha la forza di vincere, perché resta dentro l'ordine
> costituito, i cui giochi sono ormai tutti giocati e noti. Doveva essere la
> fine della storia, è cominciata invece una storia di eversione. Un
> Berlusconi è riuscito a vincere sui politici di professione non perché
> fosse più intelligente di loro, ma proprio perché loro erano dei
> professionisti, mentre lui nel gioco è entrato portando un interesse extra
> (e molto pressante, come sappiamo: salvare il suo impero affaristico e non
> finire in galera).
>
> Ormai, stando alle regole del gioco, per bene che vada, si va in pari,
> com'è successo all'avversario di Bush nelle elezioni presidenziali. Per
> vincere bisogna avere una passione e scommettere& Tutto o niente, è una
> parola contraria all'arte della mediazione, che in politica è necessaria.
> Ma intendiamoci: non si può mediare all'infinito, c'è un punto passato il
> quale la politica perde ogni senso e diventa la foglia di fico messa sopra
> il privilegio e il dominio.
> Mi chiedo se questo punto non lo abbiamo già passato. Voglio dire che la
> politica delle regole e dei professionisti, da sola, non farà vincere gli
> abitanti delle periferie urbane, quale che sia il risultato elettorale:

non
> li riguarda più. Non li farà vincere neanche che vinca la sinistra su
> questioni di principio, per quanto sacrosante, come l'articolo 18, se la
> misura dell'essere resta quella del successo, del potere e dei soldi. Non
> serve, d'altra parte, che cerchiamo di correggere questa misura con valori
> etici che, praticamente, sono vestiti che si può indossare solo in certi
> posti, a certe condizioni, non in quei casoni e bar che fa vedere il film
> di Mike Leigh (ma non occorre andare al cinema per sapere di che cosa
> parlo).
> Forse invece li farà vincere uno spostamento dello sguardo, esattamento
> come quello che opera il film, che non denuncia lo sfruttamento, non

accusa
> il potere, ma si volta verso la sofferenza di quelle donne e di quegli
> uomini, un patire comune e differente per ognuno di loro, e verso le loro
> risposte, spesso fallimentari ma non sempre& Con il risultato elementare
> quanto fondamentale di dare loro esistenza simbolica e di renderli
> protagonisti delle loro vite. Loro e noi, perché si tratta anche di noi e
> del nostro patimento, abbassati come siamo anche noi al di sotto della
> nostra capacità di vivere con gioia e generosità.
> ---------------------------------------------
> Un aspetto per volta
> di ROSSANA ROSSANDA
> (Il Manifesto, 8 giugno)
>
> Possibile che il pensiero delle donne debba spazzar via tutto quello che

ha
> prodotto il movimento operaio e comunista? Nel giorno in cui il governo
> abbatte i diritti del lavoro, priva il salariato delle poche garanzie che
> aveva sul proprio destino, ne fa non più che uno snodo intermittente,
> precario, a chiamata del processo produttivo o dei servizi, una delle
> nostre più interessanti femministe - Luisa Muraro sull'Unita di ieri - ci
> informa «che non è più tempo di fare denunce in vista di suscitare una
> indignazione o una mobilitazione delle coscienze» perché la mediazione

«che
> agiva in questi casi è estinta». Suppongo che la mediazione fosse il
> contratto di lavoro, o quello sulla previdenza. E prosegue «la politica
> delle regole e dei professionisti da sola non farà vincere gli abitanti
> delle periferie urbane. Non li farà vincere neanche che vinca la sinistra
> su questioni di principio, pur sacrosante, come l'articolo 18, se la

misura
> dell'essere resta quella del successo, del potere, dei soldi....». Brutte
> parole, successo, potere, soldi (sono più accattivanti riconoscimento,
> autorevolezza e agio); ma tradotte per «gli abitanti delle periferie
> urbane» significano poter prevedere un percorso professionale, poterne
> contrattare tempo e modi, contare su un salario. Muraro sa che il

conflitto
> sociale si svolge comunque dentro al sistema, che per uscirne si dovrebbe
> mirare più in alto - o tutto o niente - ma poi declina il «tutto» in un
> atteggiamento mentale: «Forse li farà vincere uno spostamento dello

sguardo
> che non denuncia lo sfruttamento, non accusa il potere, ma si volta verso
> la sofferenza di quelle donne e di quegli uomini ... con il risultato
> elementare quanto fondamentale di dare loro esistenza simbolica e renderli
> protagonisti delle loro vite». Sono riflessioni suggerite dal film di Mike
> Leigh Tutto o niente, in Italia uscito solo ora, differente da quelli di
> Ken Loach perché non parla di una certa lotta, vittoriosa o sconfitta, ma
> dell'affogare degli affetti e delle relazioni nella durezza della vita dei
> poco abbienti. Ma davvero Mike Leigh o Luisa Muraro sosterrebbero che la
> relazione personale o affettiva azzera i rapporti di forza materiali, e
> basterà a liberare i lavoratori, sempre più simili al tassista del film e
> felicemente descritti ieri da Manuela Cartosio? Non credo. Muraro si
> interroga non sull'indifferenza ma sul che fare. E rimprovera alla

sinistra
> del Novecento di aver creduto che basti operare sul o nel sistema dei
> proprietà, e di dipendenza del lavoratore, per risolvere i problemi di un
> uomo o una donna, non vedendo che fra cielo e terra ci sono più cose che
> nel modo e rapporti di produzione. La vulgata sindacale e comunista non
> hanno, per esempio, visto la differenza fra i sessi, o al più hanno
> proposto di portare le donne al livello degli uomini. Rimprovero di
> economicismo, di cui molti oggi si battono il petto.
>
> E' un rimprovero giusto, anche se il movimento operaio partiva proprio
> dalla constatazione d'una sofferenza. Ma è lecito derivare dalla sua
> sordità alla problematica dei sessi e della persona, sessuata o no, che la
> disoccupazione o le condizioni di sfruttamento del lavoro non fanno più
> problema? Che per chi lavora avere o no un contratto nazionale, un impiego
> non precario o non averlo, qualche diritto o no rispetto all'impresa, fa

lo
> stesso? Oppure che «ormai» è inutile battersi perché quel che avviene è
> fatale?
>
> Io sono una vecchia comunista cui le femministe hanno aperto gli occhi su
> molte cose. Ho riflettuto sui limiti dell'emancipazione. Ma non ne

concludo
> che se ne possa fare a meno. Affatto. Non ha senso ribaltare sul movimento
> operaio, cancellandolo, la sua cecità sulla differenza fra i sessi.
> Possibile che dell'umana condizione non si possa vedere che un aspetto per
> volta?
>
> Gettate gli uni sugli altri uno sguardo partecipe, sarete e saranno

liberi.
> L'ho già sentito dire, e da gente con la quale Luisa Muraro non vorrebbe
> aver a che fare. Vogliamo cessare questo, chiedo scusa, noioso conflitto
> fra il primato del simbolico sul materiale reale o viceversa?
> --------------------------------------------------
> No, non vediamo un aspetto per volta
> di LUISA MURARO
> (Il Manifesto, 10 giugno)
>
> Cara Rossanda, ti ringrazio per l'attenzione che hai dato al mio articolo
> sull'Unità di sabato, Per vincere, ma temo di non avere scritto le cose

che
> tu critichi, quando esclami polemicamente nei miei confronti: «Possibile
> che dell'umana condizione non si possa vedere che un aspetto per volta?».
> Che sarebbe, nel mio caso, la differenza dei sessi.
>
> Riassumo il mio articolo (che ora si può trovare nel sito
> www.libreriadelledonne.it). Io dico che, per vincere, non basta mirare al
> risultato elettorale secondo le forme della democrazia rappresentativa,
> bisogna portare nella lotta politica qualcosa di altro, di extra, perché

la
> fine del comunismo ha chiuso l'orizzonte e bisogna riaprirlo. Sostengo che
> la lotta politica che sta tutta dentro le regole, tutta affidata ai
> politici di professione, rischia ormai di essere una foglia di fico sopra
> la realtà del privilegio e del dominio. Che cosa ci vuole allora, in più?
> Elenco e scarto alcune risposte: la denuncia dello sfruttamento e
> dell'ingiustizia; lottare su questioni di principio come l'articolo 18;
> puntare sui valori etici. Non pretendo che siano cose sbagliate, ma
> insufficienti: non bastano a vincere. E rispondo: per vincere, prestiamo
> attenzione alla sofferenza corrente delle nostre vite, a cominciare dalle
> vite schiacciate di tanti che hanno perso ogni fiducia nella politica;
> facciamo con la politica quello che Mike Leigh fa con il cinema:

restituire
> consapevolezza e protagonismo a chi portava ciecamente gli effetti di una
> convivenza umana degradata.
>
> Come si può vedere, io non sono una che, per pensare la politica delle
> donne, deve spazzare via quello che ha prodotto il movimento operaio e
> comunista. Al contrario, direi. Cara Rossanda, perché possa risponderti
> bisogna che mi riconosca nelle tue parole di critica. Per esempio, non
> sostengo che la relazione personale o affettiva azzeri i rapporti di forza
> materiali, come tu mi fai dire. Ma penso che, per combattere i rapporti di
> forza e per vincere, sia necessario portarsi su un piano di essere (e di
> politica) in cui l'attenzione alla sofferenza personale e la cura delle
> relazioni sono beni preziosi. Tu contrapponi quello che io non

contrappongo
> e mi accusi di un esclusivismo che forse appartiene più a te che a me. Un
> altro esempio. In chiusura dici: vogliamo cessare questo noioso conflitto
> fra il primato del simbolico e il primato del materiale reale? Il noioso
> conflitto lo hai evocato tu. Per parte mia, penso che l'analisi solo
> economica della realtà sia politicamente inconcludente; può essere
> scientificamente giusta ma non se ne può dedurre una politica se non si
> considera quello che sentono, pensano, desiderano le donne e gli uomini
> interessati. Non solo. Per vincere, bisogna anche che questo sentire,
> pensare e desiderare si iscrivano in un orizzonte di possibilità
> alternative.
>
> Su questi temi rimando a Christophe Dejours e al suo libro tradotto anche
> in italiano (L'ingranaggio siamo noi. La sofferenza economica nella vita

di
> ogni giorno, Il Saggiatore 2000), dove dice, fra l'altro: il silenzio
> sociale sull'ingiustizia e l'infelicità, silenzio che ha permesso il
> trionfo dell'economicismo, potrebbe dipendere, in definitiva, da un
> appuntamento storicamente mancato delle organizzazioni sindacali con la
> questione della soggettività e della sofferenza; da qui, un enorme ritardo
> nei confronti delle tesi avanzate dal liberismo economico, e da qui anche
> la grave difficoltà ad avanzare un progetto alternativo all'economicismo

di
> sinistra come di destra.
>
>
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