Autor: forumgenova@inventati.org Data: Asunto: [NuovoLaboratorio] I: dal manifesto
-----
SE QUALCUNO NON LO HA LETTO, MI SEMBRA INTERESSANTE EDDA.
dal manifesto del 6 giugno 2003
Stati uniti, l'ultima egemonia
Nel dopoguerra iracheno si vanno delineando ibride alleanze e strategie
contrapposte di chi, nazioni ma anche sistemi politici e finanziari, tentano
di contrastare il potere senza argini dell'America guidata da George W. Bush
DANIELE ARCHIBUGI
Mai come in questi giorni le regole della politica mondiale sono diventate
esplicite. Diventato potere incontrastato, smarriti gli effetti
equilibratori delle potenze una volta chiamate «laterali», il governo degli
Stati uniti non perde occasione per annunciare esplicitamente i propri
obiettivi. Messo in riga lo scenario nel Medio oriente, inviati messaggi
minacciosi ai pochi stati ancora riottosi, come la Siria, ricondotti gli
alleati indisciplinati, quali la Francia e la Germania, sulla retta via,
Bush e i membri del suo governo promettono di governare incontrastati il
mondo. Nel frattempo, gli aiuti allo sviluppo continuano a diminuire: non
hanno più neppure bisogno di promettere pace e prosperità, perché il bastone
ha rimpiazzato la carota. Possiamo interpretare tale disegno egemonico come
un delirio americano, oppure dobbiamo più semplicemente concludere che il
governo degli Stati uniti si comporta in modo razionale, e che sta
capitalizzando i vantaggi offerti dal potere che ha accentrato?
Chi oggi tratteggia una strategia anti-egemonica non è più un sovversivo.
Anzi, nella maggior parte dei casi, si tratta di forze che, nel senso
proprio del termine, sono conservatrici, poiché tentano di difendere la
propria autonomia e preservare i loro interessi di fronte ad un attacco
d'inaudite proporzioni. Si ritrovano così uniti in un'ibrida alleanza
conservatori francesi e sceicchi arabi, vecchi burocrati dell'est e anche
movimenti globali. Sono uniti da una consapevolezza antica: il potere è
pericoloso, il potere assoluto è pericolosissimo.
Eppure, sarebbe deterministica una lettura che vedesse nella politica estera
(che sempre di più coincide con la politica militare) americana un modello
quasi obbligato. Tale lettura mancherebbe soprattutto di cogliere le
differenze esistenti tra le varie anime di quello smisurato paese. Un potere
egemone gli Stati uniti lo avevano anche negli anni Novanta, nel corso delle
amministrazioni democratiche. Anch'esse ben disposte a difendere gli
interessi della nazione e delle sue imprese. Eppure, gli strumenti
utilizzati erano diversi: maggiore ricerca del consenso, tentativo di
raggiungere i propri obiettivi con il sostegno delle istituzioni
multilaterali, capacità di compromesso pur di preservare l'alleanza con
l'Europa. Non è stato insomma solamente il trauma dell'11 settembre a
sterzare la direzione della politica americana, è stato anche il prevalere -
come avrebbe sostenuto un disincantato osservatore come Schumpeter - di una
élite contro un'altra.
Non bisogna essere anti-americani per comprendere che l'obiettivo principale
della nostra epoca è contrastare la nascente egemonia. Nel dopoguerra
iracheno, si delineano due strategie contrapposte. La prima è perseguita da
varie cancellerie. L'immagine congiunta di Chirac, Schroeder e Putin,
accompagnati frequentemente dal più alto papavero cinese, riporta subito la
mente alle antiche strategie anti-egemoniche. Ignorare le differenze nei
sistemi politici interni e stringere alleanze ibride è il modo più efficace
ed economico per contrapporsi a chi vuol prendere troppo. Costoro s'ispirano
alle coalizioni anti-napoleoniche, capaci di unire la Gran Bretagna liberale
della rivoluzione industriale con l'autocratica e barbarica Russia zarista.
Una variante ugualmente indicativa è quella che tenta di creare sistemi di
stato adatti ad equilibrare i rapporti di forza. Più idealisti dei primi
sono coloro che puntano sull'Unione Europea, la più esigente organizzazione
internazionale per quanto riguarda la natura interna degli stati membri. Il
progetto di un'Europa forte e unita serve anche ad impedire che gli
americani si imbarchino in avventure insensate, riconducendoli tramite un
miscuglio di affetto fraterno e di forza reale a mantenere gli impegni
iscritti nella propria costituzione. Ma questa strategia comporta dei costi,
ad esempio quello di investire massicciamente in bilanci militari che
abbiano un peso effettivo nella politica mondiale. Fino a quando gli europei
dovranno attendere gli Stati Uniti anche per risolvere pure il conflitto in
Bosnia, si capisce che non saranno un soggetto credibile sulla scena
globale.
In questi scenari s'inserisce un progetto tanto idealista da sembrare
insensato. E' lo scenario che vede nella globalizzazione della società e
dell'economia un'opportunità, oltre che una minaccia. Che fa una scelta di
campo radicale a favore della democrazia come forma di gestione tanto
all'interno che all'esterno degli stati. Che reputa imprescindibile la
difesa dei diritti umani in tempo sia di pace sia di guerra. Che, per quanta
spinta da un'insaziabile curiosità per culture differenti, non nasconde
neppure d'essere eurocentrica, disdegnando però decisamente di usare
strumenti diversi dalla persuasione per avvicinare gli usi e i costumi di
popoli eterogenei.
Questo progetto sta fiorendo negli stati occidentali, Usa inclusi. E' quello
in cui si riconoscono i movimenti che si sono opposti alla guerra nel Golfo
e che il 15 febbraio del 2003 hanno radunato secondo la Cnn, 110 milioni di
persone. Per la prima volta nella storia, il due per cento della popolazione
mondiale ha preso parte allo stesso evento. Forse è presto per sostenere che
è nata un'opinione pubblica mondiale, ma sembra che Bush sia riuscito a fare
più di molti predicatori ben intenzionati nell'indurre il pubblico a
partecipare alla vita politica esterna al proprio villaggio.
Quando il New York Times, fonte non certamente giacobina, ha parlato delle
due super-potenze - gli Stati uniti d'America e l'opinione pubblica mondiale
- si sbagliava, ma non di molto. In realtà, la super-potenza resta una sola,
e per di più guidata da un comitato d'affari con interessi particolarissimi.
Così come peccava d'ottimismo nel ritenere che l'opinione pubblica da sola
possa accentrare una forza di contrapposizione. Gli eventi degli ultimi mesi
hanno purtroppo mostrato che la capacità di mobilitazione s'indirizza su
obiettivi contingenti ed è quindi transitoria, mentre i governi rimangono.
Oggi una strategia alternativa deve far presente che il concetto stesso
d'egemonia è antitetico ai sistemi vigenti all'interno degli stati
vittoriosi. Un sistema democratico si fonda, in ultima analisi, sulla
condivisione del potere, che è la negazione dell'egemonia.
I sistemi occidentali - e in particolare quello statunitense - sono ancora
oggi dominati dalla schizofrenia interno/esterno: ciò che vale all'interno è
negato all'esterno. All'interno i cittadini sono protetti finanche dal
tabacco, gli animali hanno diritti inalienabili, e pure i pronomi sono
sottoposti a serrati controlli per evitare che ci sia una discriminazione di
genere. Ma all'esterno, si possono bersagliare i civili con le bombe a
frammentazione, violare le più antiche convenzioni sul diritto di guerra,
recludere individui senza processo.
E' troppo sperare che i movimenti globali riescano a curare la schizofrenia
dei sistemi democratici dell'Occidente, riconducendoli ad applicare almeno
alcuni dei propri valori e principi anche all'esterno? Si può richiedere ai
paesi occidentali di applicare il basilare principio della democrazia
secondo il quale una decisione deve essere presa dal gruppo di persone che
ne subiscono le conseguenze? I principi della politica democratica sono già
stati scritti. Si tratta solo di applicarli alla dimensione cosmopolitica.
Iniziare a farlo, significherebbe uccidere l'ultima egemonia.
E' in corso di pubblicazione in Gran Bretagna, per i tipi della Verso, il
volume Debating Cosmopolitics, una raccolta di riflessioni critiche sullo
stato del mondo attuale e sulle prospettive per una strategia alternativa.
Tra i co-autori, figurano Richard Falk, David Held, Thomas Pogge, Robin
Blackburn, Craig Calhoun, Mario Pianta e Nadia Urbinati. Pubblichiamo in
anteprima l'epilogo del curatore, Daniele Archibugi.